I - SU DUE TIPI DI SOCIETÀ LETTERA A UN AMICO LONTANO

 

 

 

Dal Paese che fu il nostro e che non è più di nessuno, mi solleciti, dopo tanti anni di silenzio, a fornirti particolari sulle mie occupazioni, come pure su questo mondo « meraviglioso » che ho, secondo te, la fortuna di abitare e di percorrere. Potrei risponderti che non faccio nulla e che questo mondo non è affatto meraviglioso. Ma una risposta cosi laconica non potrebbe, nonostante la sua esattezza, appagare la tua curiosità, né soddisfare le molteplici domande che mi poni. Ce n'è una, a mala pena distinguibile da un rimprovero, che mi ha colpito in modo del tutto particolare. Vorresti sapere se ho l'intenzione di tornare un giorno alla nostra propria lingua o se intendo invece restare fedele a quest'altra, nella quale supponi, del tutto gratuitamente, che io mi muova con un agio che non ho, che non avrò mai. Raccontarti per filo e per segno la storia dei miei rapporti con questo idioma d'accatto, con tutte queste parole pensate e ripensate, affinate, sottili fino all'inesistenza, piegate sotto le esazioni della nuance, inespressive per aver tutto espresso, di una precisione spaventevole, cariche di stanchezza e di pudore, discrete perfino nella volgarità, vorrebbe dire intraprendere la narrazione di un incubo. Come puoi immaginare che uno scita vi si possa adattare, che ne afferri il significato preciso e le maneggi con scrupolo e probità? Non ce n'è una sola la cui eleganza estenuata non mi dia la vertigine: più nessuna traccia di terra, di sangue, di anima in esse. Una sintassi d'un rigore, d'una dignità cadaverica le rinserra e assegna loro un posto da cui neanche Dio potrebbe smuoverle. Quanto consumo di caffè, di sigarette e di dizionari per scrivere una frase un po' corretta in questa lingua inavvicinabile, troppo nobile e troppo distinta per il mio gusto! Disgraziatamente, me ne sono accorto soltanto a cose fatte, e quando era troppo tardi per allontanarmene; altrimenti, non avrei mai abbandonato la nostra lingua, di cui mi capita ancora di rimpiangere l'odore di freschezza e di marciume, il miscuglio di sole e di sterco, la bruttezza nostalgica, la superba scompostezza. Tornarvi, non posso; la lingua che ho dovuto adottare mi trattiene e mi soggioga con le pene stesse che mi è costata. Sono un « rinnegato », come tu insinui? « La patria non è che un accampamento nel deserto », si dice in un testo tibetano. Io non vado così lontano: darei tutti i paesaggi del mondo per quello della mia infanzia. Ma devo pure aggiungere che, se ne faccio un paradiso, responsabili ne sono soltanto le prestidigitazioni o le infermità della memoria. Siamo tutti inseguiti dalle nostre origini; il sentimento che m'ispirano le mie si traduce necessariamente in termini negativi, nel linguaggio dell'autopunizione, dell'umiliazione accettata e proclamata, dell'assenso al disastro. Un patriottismo di tal genere rientra forse nella psichiatria? D'accordo, ma non ne posso concepire un altro e, considerati i nostri destini, esso mi pare - perché nascondertelo? - l'unico ragionevole.

Più fortunato di me, tu ti sei rassegnato alla nostra polvere natia; possiedi, inoltre, la capacità di sopportare tutti i regimi, anche i più rigidi. Non che tu non abbia la nostalgia della fantasia e del disordine, ma alla fine non conosco spirito più refrattario del tuo alle superstizioni della «democrazia». C'è stato un tempo, è vero, in cui mi ripugnavano come a te, forse più che a te: ero giovane e non potevo ammettere altre verità che le mie, né concedere all'avversario il diritto di avere le proprie, di farle valere o di imporle. Che i partiti potessero affrontarsi senza annientarsi superava le mie capacità di comprensione. Vergogna della Specie, simbolo di un'umanità esangue, senza passioni né convinzioni, inadatta all'Assoluto, priva d'avvenire, limitata sotto ogni aspetto, incapace di elevarsi a quell'alta saggezza che mi insegnava che l'oggetto d'una discussione era la polverizzazione del contraddittore - così io consideravo il regime parlamentare. E, in compenso, i sistemi che lo volevano eliminare per sostituirvisi mi sembravano belli senza eccezione, all'unisono col movimento della Vita, la mia divinità d'allora. Chi, prima della trentina, non ha subito il fascino di tutte le forme di estremismo, non so se devo ammirarlo o disprezzarlo, considerarlo un santo o un cadavere. Non si è forse posto, per mancanza di risorse biologiche, al di sopra o al di sotto del tempo? Deficienza positiva o negativa, che importa! Senza desiderio né volontà di distruggere, egli è sospetto, egli ha vinto il demone o, cosa ancora più grave, non ne è mai stato posseduto.

Vivere veramente vuol dire rifiutare gli altri; per accettarli, bisogna saper rinunciare, farsi violenza, agire contro la propria natura, indebolirsi. Si concepisce la libertà soltanto per se stessi; e non la si estende al prossimo se non al prezzo di sforzi estenuanti; da qui la precarietà del liberalismo, sfida ai nostri istinti, riuscita breve e miracolosa, stato eccezionale, all'antipodo dei nostri imperativi profondi. Noi siamo naturalmente inadatti al liberalismo, al quale soltanto il logoramento delle nostre forze ci apre. Miseria di una razza che deve afflosciarsi da un lato per nobilitarsi dall'altro, e della quale nessun rappresentante, a meno di una precoce decrepitezza, sacrifica a princìpi « umani ». Conseguenza di un ardore estinto, di uno squilibrio, non per sovrabbondanza ma per difetto di energia, la tolleranza non può sedurre i giovani. Non ci si immischia impunemente nelle lotte politiche; è al culto di cui i giovani sono stati oggetto che la nostra epoca deve il suo carattere sanguinario : le recenti convulsioni emanano da loro, dalla facilità con cui sposano un'aberrazione e la traducono in atto. Date loro la speranza o l'occasione di un massacro, e vi seguiranno ciecamente. All'uscita dall'adolescenza, si è fanatici per definizione; lo sono stato anch'io, e fino al ridicolo. Ti ricordi il tempo in cui spacciavo battute incendiarie, e meno per gusto dello scandalo che per bisogno di sfuggire a una febbre la quale, senza il diversivo della demenza verbale, non avrebbe mancato di consumarmi? Convinto che i mali della nostra società provenivano dai vecchi, avevo concepito l'idea di liquidare tutti i cittadini superiori alla quarantina, inizio della sclerosi e della mummificazione, svolta a partire dalla quale, mi compiacevo di pensare, ogni individuo diventa un insulto alla nazione e un peso per la collettività. Così meraviglioso mi era parso questo progetto che non avevo esitato a divulgarlo; gli interessati ne apprezzarono poco il contenuto e mi trattarono da cannibale: la mia carriera di benefattore pubblico cominciava sotto cattivi auspici. Tu stesso, pur così generoso e, nei momenti favorevoli, così intraprendente, a furia di riserve e di obiezioni mi hai spinto ad abbandonare il progetto. Era forse riprovevole? Esso esprimeva semplicemente ciò che ogni uomo affezionato al proprio Paese auspica dal profondo del cuore: la soppressione della metà dei suoi compatrioti.

Quando penso adesso a quei momenti di entusiasmo e di furore, alle speculazioni insensate che devastavano e obnubilavano la mia mente, li attribuisco non più a sogni di filantropia e di distruzione, all'ossessione di non so quale purezza, ma a una tristezza bestiale che, dissimulata sotto la maschera del fervore, si dispiegava a mie spese e di cui tuttavia ero complice, tutto felice di non dover scegliere, come tanti altri, fra l'insipido e l'atroce. Dato che l'atroce mi veniva devoluto, che cosa potevo desiderare di meglio? Avevo un animo di lupo, e la mia ferocia, nutrendosi di se stessa, mi appagava, mi lusingava: ero, insomma, il più felice dei licantropi. Aspiravo alla gloria e me ne distoglievo al medesimo tempo: una volta ottenuta, che vale, mi dicevo, dal momento che ci segnala e ci impone soltanto alle generazioni presenti e future e ci esclude dal passato? A che scopo essere conosciuti, se non lo si è stati da quel tale saggio o quel tale folle, da un Marco Aurelio o da un Nerone? Non saremo mai esistiti per tanti dei nostri idoli, il nostro nome non avrà turbato nessuno dei secoli precedenti; e che c'importa di coloro che verranno dopo? Che importa dell'avvenire, di questa metà del tempo, a chi adora l'eternità?

Non ti dirò attraverso quali conflitti e in qual modo sia pervenuto a disfarmi di tante frenesie, sarebbe troppo lungo: ci vorrebbe una di quelle interminabili conversazioni di cui il balcanico ha - o piuttosto aveva - il segreto. Quali che siano stati i miei conflitti, essi non furono certo l'unica ragione del mio mutato orientamento, al quale ha contribuito in gran parte un fenomeno più naturale e più affliggente, l'età, coi suoi sintomi che non ingannano: cominciavo a dare sempre più segni di tolleranza, che mi sembrava annunciassero qualche sconvolgimento intimo, qualche male senz'altro incurabile. Ciò che spingeva al massimo grado il mio allarme era il fatto che non avevo più la forza di desiderare la morte di un nemico; al contrario, lo comprendevo, paragonavo il suo fiele al mio: egli esisteva e, innominabile decadimento, ero contento che esistesse. I miei odii, fonte delle mie esultazioni, si placavano, diminuivano giorno per giorno e, allontanandosi, si portavano via il meglio di me stesso. Cosa fare? Verso quale abisso sto per scivolare?, mi chiedevo continuamente. E a mano a mano che la mia energia declinava, si accentuava la mia inclinazione alla tolleranza. Decisamente, non ero più giovane: l'altro mi appariva concepibile e perfino reale. Davo l'addio all'Unico e la sua proprietà; la saggezza mi tentava: ero finito? Bisogna esserlo per diventale un democratico sincero. Con mia grande gioia, mi accorsi che non era esattamente il mio caso, che conservavo tracce di fanatismo, qualche vestigio di gioventù: non transigevo su nessuno dei miei nuovi princìpi, ero un liberale intrattabile. Lo sono tuttora. Felice incompatibilità, assurdità che mi salva. Aspiro talvolta a dare l'esempio di un moderato perfetto: nello stesso tempo mi rallegro di non riuscirci, a tal punto temo il rimbambimento. Verrà un giorno in cui, non temendolo più, mi avvicinerò a quella ponderatezza ideale che talvolta sogno; e se gli anni dovessero condurti, come spero, a una rovina simile alla mia, forse, verso la fine del secolo, sederemo laggiù, fianco a fianco, in un parlamento risuscitato, e, senili entrambi, potremo assistervi a una fiaba perpetua. Si diventa tolleranti soltanto nella misura in cui si perde di vigore, si cade amabilmente nell'infanzia, e si è troppo stanchi per tormentare gli altri con l'amore o con l'odio.

Come vedi, ho « larghe » vedute su ogni cosa. Esse lo sono tanto che ignoro a che punto io sia rispetto a qualunque problema. Ne giudicherai tu stesso. Così, alla domanda che mi poni: « Perseveri nei tuoi pregiudizi contro la nostra piccola vicina occidentale, nutri sempre nei suoi confronti gli stessi risentimenti? », non so quale risposta darti; potrei tutt'al più meravigliarti o deluderti. Il fatto è, vedi, che noi non abbiamo la stessa esperienza dell'Ungheria.

Nato al di là dei Carpazi, tu non potevi conoscere il gendarme ungherese, terrore della mia infanzia transilvana. Quando da lontano ne scorgevo uno, ero preso dal panico e mi mettevo a fuggire: era lo straniero, il nemico; odiare, significava odiarlo. Per causa sua, aborrivo tutti gli ungheresi, con una passione veramente magiara. È per dirti quanto mi interessavano. In seguito, cambiate le circostanze, non avevo più motivo di volergliene. Ciò non toglie che ancora per lungo tempo non potessi raffigurarmi un oppressore senza evocare le loro tare e i loro prodigi. Chi si rivolta, chi insorge? Raramente lo schiavo, ma quasi sempre l'oppressore diventato schiavo. Gli ungheresi conoscono da vicino la tirannide per averla esercitata con una competenza incomparabile: le minoranze della vecchia monarchia austroungarica potrebbero farne testimonianza. Appunto perché seppero, nel passato, far così bene la parte dei padroni, gli ungheresi erano, ai nostri tempi, meno disposti di qualsiasi altra nazione dell'Europa centrale a sopportare la schiavitù; se avevano avuto il gusto del comando, come potevano non avere quello della libertà? Forti della loro tradizione di persecutori, esperti del meccanismo dell'asservimento e dell'intolleranza, si sono sollevati contro un regime che non era molto dissimile da quello che essi stessi avevano riservato ad altri popoli. Ma noi, caro amico, non avendo mai avuto finora la possibilità di essere degli oppressori, non potevamo avere neanche quella di essere degli insorti. Privi di questa doppia fortuna, portiamo correttamente le nostre catene, e non avrei buone ragioni per negare le virtù della nostra discrezione, la nobiltà della nostra servitù, pur riconoscendo che gli eccessi della nostra modestia ci spingono verso estremi inquietanti; tanta saggezza oltrepassa i limiti; è così smisurata che non manca talvolta di scoraggiarmi. Invidio, te lo confesso, l'arroganza dei nostri vicini, invidio perfino la loro lingua, feroce come nessun'altra, di una bellezza che non ha niente di umano, con sonorità di un altro universo, potente e corrosiva, adatta alla preghiera, ai ruggiti e ai pianti, scaturita dall'inferno per perpetuarne l'accento e il bagliore. Benché non ne conosca altro che le bestemmie, essa mi piace infinitamente, non mi stanco di sentirla, mi incanta e mi agghiaccia, soccombo al suo fascino e al suo orrore, a tutte quelle parole di nettare e di cianuro, così consone alle esigenze di un'agonia. Si dovrebbe spirare in ungherese - o rinunciare a morire.

Decisamente, odio sempre meno i miei antichi padroni. Pensandoci bene, al tempo stesso del loro splendore, essi sono sempre stati soli in mezzo all'Europa, isolati nella loro fierezza e nei loro rimpianti, senza affinità profonde con le altre nazioni. Dopo qualche incursione in Occidente, dove poterono esibire e dispiegare la loro primitiva barbarie, rifluirono, conquistatori degenerati in sedentari, sulle rive del Danubio per cantare, lamentarsi, per esaurirvi i loro istinti. C'è in questi Unni raffinati una malinconia fatta di crudeltà repressa, di cui non si troverà l'equivalente altrove: quasi che il sangue si fosse messo a sognare su se stesso e, alla fine, si fosse risolto in melodia. Vicini alla loro essenza, sebbene toccati e anzi segnati dalla civiltà, consapevoli di discendere da un'orda impareggiabile, improntati di una fatuità insieme profonda e teatrale, che conferisce loro un carattere più romantico che tragico, non potevano evitare la missione che incombeva loro nel mondo moderno: riabilitare lo sciovinismo, introducendovi abbastanza fasto e fatalità da renderlo pittoresco agli occhi dell'osservatore disingannato. Io sono tanto più incline a riconoscere il loro merito in quanto è grazie a essi che mi fu dato di provare la peggiore delle umiliazioni: quella di nascere servo, e quei « dolori della vergogna », i più insopportabili di tutti, secondo un moralista. Non hai provato anche tu la voluttà che si attinge dallo sforzo di essere obiettivi verso coloro che ti hanno dileggiato, schernito, maltrattato, soprattutto quando condividi in segreto i loro vizi e le loro miserie? Non dedurne che desidero essere promosso al rango di magiaro. Lungi da me una tale presunzione: conosco i miei limiti e intendo rispettarli. D'altra parte, conosco anche quelli della nostra vicina, e basta che il mio entusiasmo per essa si abbassi, anche di un solo grado, perché io non tragga più nessuna vanità dall'onore che mi ha fatto perseguitandomi.

I popoli, assai più che gli individui, ci ispirano sentimenti contraddittori; li si ama e li si detesta nello stesso tempo; oggetto d'attaccamento e d'avversione, non meritano che si nutra per essi una passione definita. La tua parzialità a favore degli occidentali, di cui non distingui chiaramente i difetti, è l'effetto della distanza: errore d'ottica o nostalgia dell'inaccessibile. Tu non scorgi più le lacune della società borghese; sospetto anzi in te qualche compiacimento nei suoi riguardi. Niente di più naturale che da lontano tu ne abbia una visione mirabolante. Ma poiché io la conosco da vicino, ho il dovere di combattere le illusioni che potresti coltivare al suo riguardo. Non che mi dispiaccia assolutamente — tu conosci il mio debole per l'orrido - ma il dispendio di insensibilità che richiede per essere sopportata è sproporzionato alle mie risorse di cinismo. È poco dire che le ingiustizie vi abbondano: essa è, per la verità, quintessenza d'ingiustizia. Soltanto gli oziosi, i parassiti, gli esperti in turpitudini, i piccoli e i grandi sporcaccioni traggono profitto dai beni che essa ostenta, dall'opulenza di cui si vanta: delizie e profusione di superficie. Sotto il luccichio che esibisce si nasconde un mondo di desolazione di cui ti risparmierò i particolari. Senza l'intervento di un miracolo, come spiegare che non si riduca in polvere sotto i nostri occhi o che non la si faccia saltare all'istante?

« La nostra non vale davvero di più, anzi », mi obietterai. Lo ammetto. Sta qui, infatti, la difficoltà. Ci troviamo di fronte a due tipi di società intollerabili. E ciò che è grave è che gli abusi della vostra permettono a questa di perseverare nei suoi e di opporre abbastanza efficacemente i suoi orrori a quelli che si coltivano da voi. Il rimprovero capitale che si può rivolgere al vostro regime è di aver distrutto l'utopia, principio di rinnovamento delle istituzioni e dei popoli. La borghesia ha capito il vantaggio che si poteva trarne contro gli avversari dello statu quo; il « miracolo » che la salva, che la preserva da una distruzione immediata, è proprio il fallimento dell'altra parte, lo spettacolo di una grande idea sfigurata, la delusione che ne è risultata e che, impadronendosi degli animi, doveva paralizzarli. Delusione veramente insperata, sostegno provvidenziale del borghese che ne vive e ne trae la ragione della propria sicurezza. Le masse non si muovono se hanno soltanto da scegliere tra mali presenti e mali futuri; rassegnate a quelli che provano, non hanno nessun interesse ad arrischiarne altri, ignoti ma sicuri. Le miserie prevedibili non eccitano le fantasie, e non si è mai veduta scoppiare una rivoluzione in nome di un avvenire cupo o di una profezia amara. Chi avrebbe potuto indovinare, nel secolo scorso, che la nuova società, con i suoi vizi e con le sue iniquità, avrebbe permesso alla vecchia di conservarsi e perfino di consolidarsi; che il possibile, divenuto realtà, sarebbe volato in soccorso del compiuto?

Qui come là, siamo tutti a un punto morto, ugualmente decaduti da quell'ingenuità in cui si elaborano le divagazioni sul futuro. Alla lunga, la vita senza utopia diventa irrespirabile, almeno per la moltitudine: se non vuole pietrificarsi, il mondo ha bisogno di un delirio nuovo. È questa l'unica evidenza che emana dall'analisi del presente. Intanto, la nostra situazione, per noialtri di qui, non manca di essere curiosa. Immagina una società, sovraccarica di dubbi, in cui, a eccezione di qualche sbandato, nessuno aderisce completamente a nulla; in cui, indenni da superstizioni e da certezze, tutti si richiamano alla libertà e nessuno rispetta la forma di governo che la difende e la incarna. Ideali senza contenuto o, per usare un'espressione altrettanto spuria, miti senza sostanza. Tu sei deluso da promesse che non potevano essere mantenute; noi lo siamo per mancanza di promesse, semplicemente. Ma almeno siamo consapevoli del vantaggio che accorda all'intelligenza un regime, il quale, per il momento, la lascia dispiegarsi a modo suo, senza sottometterla ai rigori di nessun imperativo. Che il borghese non creda in nulla, è un fatto; ma in questo sta, se così posso dire, il lato positivo del suo nulla, dato che la libertà si può manifestare soltanto nel vuoto delle fedi, nell'assenza degli assiomi, ed esclusivamente laddove le leggi non hanno maggiore autorità di un'ipotesi. Se mi si obiettasse che, tuttavia, il borghese in qualche cosa crede, che il denaro assolve veramente per lui la funzione di un dogma, replicherei che questo dogma, il più laido di tutti, è, per quanto strano possa sembrare, il più sopportabile per lo spirito. Perdoniamo agli altri le loro ricchezze se, in cambio, ci lasciano la libertà di morire di fame a modo nostro. No, non è tanto sinistra questa società che non si occupa di te, che ti abbandona, ma ti garantisce il diritto di attaccarla, ti ci invita, ti ci obbliga anzi nei suoi momenti di pigrizia, in cui non ha abbastanza energia per esecrarsi da sé. Altrettanto indifferente, in ultima istanza, alla sua sorte quanto alla tua, essa non vuole in alcun modo interferire nelle tue sventure, né per mitigarle né per aggravarle; e se ti sfrutta, lo fa per automatismo, senza premeditazione né cattiveria, come si addice a dei bruti stanchi e pasciuti, contaminati dallo scetticismo non meno delle loro vittime. La differenza fra i regimi è meno importante di quanto appaia; tu sei solo per costrizione, noi lo siamo senza costrizione. È così grande la differenza tra l'inferno e un paradiso desolante? Tutte le società sono cattive; ma vi sono dei gradi,lo riconosco, e se ho scelto questa in cui vivo è perché so distinguere fra le sfumature del peggio.

Per manifestarsi la libertà esige, come ti dicevo, il vuoto: lo esige - e vi soccombe. La condizione che la determina è la stessa che la annulla. Essa manca di basi: più sarà completa, e più sarà instabile, perché tutto la minaccia, perfino il principio da cui emana. L'uomo è così poco adatto a sopportarla o a meritarla che gli stessi benefici che ne riceve lo schiacciano, ed essa finisce col pesargli al punto che agli eccessi che suscita egli preferisce quelli del terrore. A questi inconvenienti altri si aggiungono : la società liberale, che elimina il « mistero », l'« assoluto », l'« ordine », e non ha vera metafisica più di quanto non abbia vera polizia, respinge l'individuo su se stesso, pur allontanandolo da ciò che egli è, dalle sue proprie profondità. Se manca di radici, se è essenzialmente superficiale, è perché la libertà, fragile in se stessa, non ha nessun mezzo per conservarsi e per sopravvivere ai pericoli che la minacciano dal di fuori e dal di dentro. Inoltre, essa appare soltanto in virtù di un regime che volge alla fine, al momento in cui una classe declina e si dissolve: le mancanze dell'aristocrazia consentirono al Settecento di divagare magnificamente; quelle della borghesia ci permettono oggi di abbandonarci ai nostri capricci. Le libertà prosperano soltanto in un corpo sociale malato: tolleranza e impotenza sono sinonimi. Ciò è evidente in politica, come in tutto il resto. Quando intravidi questa verità, il sole sprofondò sotto i miei piedi. Ancora oggi, ho un bell'esclamare: « Fai parte d'una società di uomini liberi! », la fierezza che ne provo si accompagna sempre con un senso di terrore e di inanità, scaturito dalla mia terribile certezza. Nel corso dei tempi, la libertà non occupa più istanti di quanti ne occupi l'estasi nella vita di un mistico. Essa ci sfugge nel momento stesso in cui cerchiamo di afferrarla e di formularla: nessuno può goderne senza tremare. Disperatamente mortale, non appena s'instaura, postula la sua mancanza di avvenire e lavora, con tutte le sue forze minate, alla propria negazione e alla propria agonia. Non c'è qualche perversione nel nostro amore verso di essa? E non è terrificante votare un culto a ciò che non vuole né può durare? Per voi, che non l'avete più, è tutto; per noi, che la possediamo, non è che illusione, perché sappiamo che la perderemo e che, a ogni modo, è fatta per essere perduta. Perciò, in mezzo al nostro nulla, volgiamo gli sguardi da tutte le parti, senza tuttavia trascurare le possibilità di salvezza che risiedono in noi stessi. D'altra parte, non c'è il nulla perfetto nella storia. In quest'assenza inaudita nella quale siamo confinati e che ho il piacere e la disgrazia di rivelarti, avresti torto a supporre che non si delinei nulla: io vi scorgo - presentimento o allucinazione? - come l'attesa di altri dèi. Quali? Nessuno potrebbe rispondere. Ciò che so, ciò che tutti sanno, è che una situazione come la nostra non si lascia sopportare indefinitamente. Nel più profondo delle nostre coscienze una speranza ci crocifigge, un'apprensione ci esalta. A meno di consentire alla morte, le vecchie nazioni, per quanto marce siano, non possono fare a meno di nuovi idoli. Se infatti l'Occidente non è irrimediabilmente colpito, deve ripensare tutte le idee che gli sono state rubate e che, contraffatte, sono state applicate altrove: intendo dire che, se vuole distinguersi ancora con un soprassalto o con un residuo di onore, gli toccherà riprendere le utopie che per comodità ha abbandonato agli altri, rinunciando in tal modo al proprio genio e alla propria missione. Mentre sarebbe stato suo dovere mettere in pratica il comunismo, adeguarlo alle sue tradizioni, umanizzarlo, liberalizzarlo, e proporlo quindi al mondo, ha lasciato all'Oriente il privilegio di realizzare l'irrealizzabile e di trarre potenza e prestigio dalla più bella illusione moderna. Nella battaglia delle ideologie, si è rivelato timorato, inoffensivo; alcuni lo applaudono per questo, mentre bisognerebbe biasimarlo perché, nella nostra epoca, non si accede all'egemonia senza il concorso di alti princìpi menzogneri di cui i popoli virili si servono per dissimulare i loro istinti e le loro mire. Lasciata la realtà per l'idea, e l'idea per l'ideologia, l'uomo è caduto in un universo derivato, in un mondo di sottoprodotti, in cui la finzione assume le virtù di un dato primordiale. Questa caduta è il frutto di tutte le rivolte e di tutte le eresie dell'Occidente, e tuttavia l'Occidente si rifiuta di trarne le ultime conseguenze: esso non ha fatto la rivoluzione che gli incombeva e che tutto il suo passato reclamava, né ha condotto a termine gli sconvolgimenti di cui è stato promotore. Diseredandosi a favore dei suoi nemici, rischia di compromettere la propria riuscita finale e di mancare un'occasione suprema. Non contento di aver tradito tutti quei precursori, tutti quegli scismatici che l'hanno preparato e formato, da Lutero fino a Marx, s'immagina ancora che qualcuno verrà, dal di fuori, a fare la sua rivoluzione e che gli riporterà le sue utopie e i suoi sogni. Capirà finalmente di non avere un destino politico e un compito da assolvere se non ritroverà in se stesso i suoi vecchi sogni e le sue antiche utopie, come pure le menzogne del suo vecchio orgoglio? Per ora, sono i suoi avversari, convertiti in teorici del dovere al quale esso si sottrae, a erigere i loro imperi sulla sua timidezza e sulla sua stanchezza. Da quale maledizione è stato colpito per non produrre, al termine della sua crescita, altro che questi uomini d'affari, questi bottegai, questi intrallazzatori dagli sguardi vacui e dai sorrisi atrofizzati, che si incontrano dappertutto, in Italia come in Francia, in Inghilterra come in Germania? Doveva proprio terminare con questa gentaglia una civiltà così delicata, così complessa?

O forse bisognava passare attraverso l'abiezione per poter immaginare un altro genere d'uomini. Da buon liberale, non voglio spingere l'indignazione fino all'intolleranza né lasciarmi trascinare dai miei umori, per quanto sia piacevole per tutti noi poter infrangere i princìpi che si richiamano alla nostra generosità. Volevo semplicemente farti osservare che questo mondo, per niente meraviglioso, potrebbe in qualche modo diventarlo se accettasse non già di scomparire (vi inclina anzi fin troppo), ma di liquidare i suoi rifiuti, imponendosi compiti impossibili, opposti a quell'orribile buon senso che lo sfigura e lo rovina.

I sentimenti che esso mi ispira non sono meno complessi di quelli che provo per il mio Paese, per l'Ungheria o per la nostra grande vicina, della quale tu sei in grado di apprezzare meglio di me l'indiscreta vicinanza. Il male e il bene smisurati che io ne penso, le impressioni che mi suggerisce quando rifletto sul suo destino, come dirli senza cadere nell'inverosimiglianza? Io non pretendo di farti cambiare opinione su di essa, voglio soltanto che tu sappia ciò che rappresenta per me e quale posto occupa nelle mie ossessioni. Più ci penso, e più trovo che si è formata, attraverso i secoli, non come si forma una nazione, ma un universo, dato che i momenti della sua evoluzione rientrano meno nella storia che in una cosmogonia fosca, terrificante. Questi zar dall'aspetto di divinità tarate, giganti attirati dalla santità e dal crimine, immersi nella preghiera e nel terrore, erano, come i tiranni più recenti che li hanno sostituiti, più vicini a una vitalità geologica che all'anemia umana, despoti che perpetuano ai nostri tempi la linfa e la corruzione originarie e superano noi tutti grazie alle loro inesauribili riserve di caos. Coronati o no, a loro importava, a loro importa fare un salto al di sopra della civiltà, inghiottirla, se necessario; l'operazione era iscritta nella loro natura, perché da sempre essi soffrono di una stessa ossessione: estendere la loro supremazia sui nostri sogni e sulle nostre rivolte, costituire un impero vasto quanto le nostre delusioni o i nostri terrori. Una nazione simile, sollecitata sia nei suoi pensieri sia nei suoi atti dai confini del globo, non si misura secondo canoni correnti né si spiega in termini ordinari, in un linguaggio intelligibile; ci vorrebbe il gergo degli gnostici, arricchito da quello della paralisi generale. Essa è senz'altro, come ci assicura Rilke, limitrofa di Dio; ma disgraziatamente lo è anche del nostro Paese, c lo sarà ancora, in un avvenire più o meno prossimo, di molti altri, non oso dire di tutti, nonostante i precisi avvertimenti che mi intima una maligna prescienza. Dovunque siamo, ci tocca già, se non geograficamente, senza dubbio interiormente. Io sono disposto più di chiunque altro a riconoscerle i miei debiti: senza i suoi scrittori, avrei mai preso coscienza delle mie piaghe e del dovere che m'incombeva di dedicarmi-ci? Senza di essa e senza di essi, non avrei forse sperperato le mie ansie, sprecato il mio smarrimento? Temo molto che questa mia inclinazione, che mi induce a dare un giudizio imparziale su di essa e a testimoniarle la mia gratitudine, non sia, in questo momento, di tuo gradimento. Soffoco dunque questi elogi fuori stagione, li soffoco in me per condannarli a dispiegarvisi.

Fin dal tempo in cui ci dilettavamo a passare in rassegna le nostre convergenze e le nostre divergenze, mi rimproveravi la mania che ho di giudicare senza prevenzioni sia quello che prendo a cuore sia quello che esecro, di non provare se non sentimenti doppi, necessariamente falsi, che imputavi alla mia incapacità di provare una passione autentica, pur insistendo sui piaceri che ne traggo. La tua diagnosi non era inesatta; ti ingannavi però sul tema dei piaceri. Pensi che sia tanto piacevole essere idolatra e vittima del prò e del contro, un esaltato diviso dalle proprie esaltazioni, un delirante preoccupato dell'obiettività.? Ciò comporta sofferenze: gli istinti protestano, ed è proprio malgrado e contro di essi che si procede verso l'irresoluzione assoluta, condizione a mala pena distinta da ciò che il linguaggio degli estatici chiama « l'ultimo punto dell'annientamento ». Per conoscere io stesso l'intimo del mio pensiero sulla minima cosa, per pronunciarmi non solo su un problema, ma su un nonnulla, devo contraddire il vizio maggiore del mio spirito, questa propensione a sposare tutte le cause e a dissociarmene nello stesso tempo, come un virus onnipresente, squartato fra la brama e la sazietà, agente nefasto e benigno, tanto impaziente quanto indifferente, indeciso tra i flagelli, incapace di adottarne uno e di specializzarvisi, e che passa dall'uno all'altro senza discernimento e senza efficacia, guastamestieri fuori classe, traditore di tutti i mali, di quelli altrui come dei propri.

Non aver mai l'occasione di prendere posizione, di decidersi o di definirsi: non c'è voto che io faccia più spesso di questo. Ma noi non riusciamo a dominare i nostri umori, questi atteggiamenti in germe, questi abbozzi di teoria. Visceralmente inclini alla formazione di sistemi, ne costruiamo senza tregua, specialmente in politica, regno di pseudoproblemi in cui si dilata il cattivo filosofo che è in ognuno di noi, campo dal quale mi vorrei allontanare per un motivo banale, un'evidenza che s'innalza ai miei occhi al rango di rivelazione: la politica gira unicamente intorno all'uomo. Avendo perduto il gusto degli esseri, mi sforzo tuttavia, ma invano, di acquisire quello delle cose; limitato per forza all'intervallo che li separa, mi esercito e mi esaurisco sulla loro ombra. Ombre al pari di queste nazioni, la cui sorte mi incuriosisce non tanto per se stesse, quanto per il pretesto che mi offrono di vendicarmi su ciò che non ha né contorno né forma, su entità e simboli. L'uomo senza occupazione che ama la violenza salvaguarda il suo saper vivere confinandosi in un inferno astratto. Abbandonando l'individuo, egli si affranca dai nomi e dai volti, si scaglia sull'impreciso, sul generale e, orientando verso l'impalpabile la sua scie di sterminio, concepisce un genere nuovo: il pamphlet senza oggetto.

Aggrappato a quarti di idea e a simulacri di sogno, giunto alla riflessione per caso o per isteria e niente affatto per preoccupazione di rigore, mi scopro, in mezzo alla gente civile, come un intruso, come un troglodita innamorato della caducità, sprofondato in preghiere sovversive, in preda a un panico che non emana da una visione del mondo, ma dagli spasmi della carne e dalle tenebre del sangue. Impermeabile alle sollecitazioni della chiarezza e alla contaminazione latina, sento l'Asia muoversi nelle mie vene: sono forse il discendente di qualche tribù inconfessabile o il portavoce di una razza un tempo turbolenta e oggi muta? Spesso mi coglie la tentazione di forgiarmi un'altra genealogia, di cambiare antenati, di scegliermeli fra coloro che, ai loro tempi, hanno saputo spargere il lutto fra le nazioni, al contrario dei miei, dei nostri, ignorati e straziati, colmati di miserie, amalgamati al fango e gementi sotto l'anatema dei secoli. Sì, nelle mie crisi di fatuità propendo a credermi l'epigono di un'orda illustre per le sue depredazioni, un turanico d'animo, l'erede legittimo delle steppe, l'ultimo mongolo...

Non voglio concludere senza metterti ancora una volta in guardia contro l'entusiasmo o l'invidia che ti ispirano le mie « fortune » e, più precisa-mente, quella di potermi crogiolare in una città

il cui ricordo ti ossessiona di certo, nonostante il tuo radicamento nella nostra patria svanita. Questa città, che non cambierei con nessun'altra al mondo, è per ciò stesso la fonte delle mie disgrazie. Poiché tutto ciò che non è questa città si equivale ai miei occhi, mi capita spesso di rimpiangere che la guerra l'abbia risparmiata e che essa non sia perita, come tante altre. Distrutta, mi avrebbe liberato dalla felicità di viverci, avrei potuto passare i miei giorni altrove, nell'ultimo angolo di un continente qualunque. Non le perdonerò mai di avermi legato allo spazio né di essere, per colpa sua, da qualche parte. Ciò detto, non dimentico in nessun momento che i suoi abitanti, i quattro quinti, come notava già Chamfort, « muoiono di tristezza ». Aggiungerò ancora, per tua edificazione, che il resto, i rari privilegiati ai quali appartengo, non ne sono molto commossi e anzi invidiano alla grande maggioranza il vantaggio che essa ha di sapere di che cosa morire.