IV - ODISSEA DEL RANCORE

 

 

 

Impieghiamo la maggior parte delle nostre veglie nel fare a pezzi coll'immaginazione i nostri nemici, nello strappare loro gli occhi e le viscere, nello spremere e svuotare le loro vene, nel pestare e stritolare ogni loro organo, pur lasciando loro, per pietà, il godimento del proprio scheletro. Fatta questa concessione, ci plachiamo e, spossati, scivoliamo nel sonno: riposo ben meritato dopo tanto accanimento e tanta pignoleria. D'altra parte, dobbiamo recuperare le forze per poter la notte seguente ricominciare l'operazione, riprendere un lavoro che scoraggerebbe un Ercole macellaio. Decisamente, avere nemici non è una sinecura.

Il programma delle nostre notti sarebbe meno pesante se, di giorno, ci fosse concesso di dare libero corso alle nostre cattive inclinazioni. Per raggiungere non tanto la felicità quanto l'equilibrio, dovremmo liquidare una buona parte dei nostri simili, praticare quotidianamente il massacro, sull'esempio dei nostri fortunatissimi e lontanissimi avi.

Non tanto fortunati, si obietterà, dato che la scarsa densità demografica all'epoca delle caverne non offriva loro molte possibilità di scannarsi a vicenda continuamente. E sia! Ma essi avevano delle compensazioni, erano favoriti dalla sorte più di noi : andando a caccia a qualsiasi ora del giorno, avventandosi contro le belve, abbattevano pur sempre dei congeneri. Avvezzi al sangue, potevano appagare senza difficoltà la loro frenesia: non avevano bisogno di dissimulare e di differire i loro progetti assassini, al contrario di noialtri, condannati a sorvegliare e a frenare la nostra, ferocia, a lasciarla soffrire e gemere in noi, costretti come siamo a temporeggiare, a ritardare le nostre vendette o a rinunciarvi.

Non vendicarsi significa incatenarsi all'idea del perdono, immergervisi, affondarvi, significa rendersi impuri con l'odio che si soffoca in sé. Il nemico risparmiato ci ossessiona e ci turba, particolarmente quando abbiamo deciso di non esecrarlo più. Perciò gli perdoniamo veramente soltanto se abbiamo contribuito o assistito alla sua caduta, se egli ci offre lo spettacolo di una fine ignominiosa o, riconciliazione suprema, se contempliamo il suo cadavere. Felicità rara, per la verità; meglio non contarci. Perché il nemico non è mai a terra; sempre in piedi e trionfante, la sua prima qualità è di ergersi davanti a noi e di opporre ai nostri timidi sogghigni il suo sarcasmo raggiante.

Niente rende più infelici che il dovere di resistere alla propria essenza primitiva, al richiamo delle proprie origini. Ne derivano quei tormenti dell'uomo civile ridotto al sorriso, aggiogato alla cortesia e alla duplicità, incapace d'annientare l'avversario se non col discorso, votato alla calunnia e come disperato di dover uccidere senza agire, con la sola virtù della parola, questo pugnale invisibile. Le vie della crudeltà sono varie. Sostituendosi alla giungla, la conversazione permette alla nostra bestialità di consumarsi senza danno immediato per i nostri simili. Se, per il capriccio di qualche potenza malefica, perdessimo l'uso della parola, nessuno si sentirebbe più al sicuro. Il bisogno di uccidere, iscritto nel nostro sangue, siamo riusciti a trasferirlo nei nostri pensieri: soltanto questa acrobazia spiega la possibilità, e la permanenza, della società. Si dovrà concludere che riusciamo a vincere la nostra corruzione nativa, il nostro talento omicida? Significherebbe ingannarsi sulle capacità del verbo ed esagerarne i sortilegi. La crudeltà ereditata, di cui disponiamo, non si lascia domare così facilmente; finché non ci si abbandona a essa completamente e non la si esaurisce, finché la si conserva nell'intimità più segreta di sé, non si giunge a emanciparsene realmente. Il vero assassino medita il suo delitto, lo prepara, lo compie e, compiendolo, si libera per un certo tempo dei suoi impulsi; in compenso, chi non uccide perché non può uccidere, pur avendone la voglia, l'assassino non realizzato, velleitario ed elegiaco della strage, commette coll'immaginazione un numero infinito di crimini e langue e soffre molto più dell'altro, perché si porta dietro il rimpianto di tutti gli atti abominevoli che non ha saputo perpetrare. Allo stesso modo, chi non osa vendicarsi si avvelena la vita, maledice i propri scrupoli e quell'atto contro natura che è il perdono. Certo la vendetta non è sempre dolce : una volta compiuta, ci si sente inferiori alla vittima, o ci si ingarbuglia nelle sottigliezze del rimorso; anch'essa ha dunque il suo veleno, per quanto sia più conforme a ciò che si è, a ciò che si prova, alla legge di ognuno; essa è altresì più sana della magnanimità. Le Furie erano ritenute anteriori agli dèi, Giove compreso. La Vendetta che precede la Divinità! È questa la maggiore intuizione della mitologia antica.

Coloro che, per impotenza, mancanza d'occasione o generosità teatrale, non hanno reagito alle manovre dei nemici, portano sui volti le stigmate delle collere nascoste, le tracce dell'affronto e dell'obbrobrio, il disonore di aver perdonato. Gli schiaffi che non hanno dato si ritorcono contro di loro e vengono in massa a colpire il loro viso, a illustrare la loro viltà. Smarriti e invasati, ripiegati sulla loro onta, saturi di acrimonia, ribelli agli altri e a se stessi, altrettanto repressi quanto pronti a scoppiare, si direbbe che compiano uno sforzo sovrumano per allontanare una minaccia di convulsione. Quanto maggiore è la loro impazienza, tanto più la devono mascherare e quando non ci riescono, alla fine esplodono, ma inutilmente, stupidamente, perché sprofondano nel ridicolo, al pari di coloro che, per aver accumulato troppa bile e troppo silenzio, perdono al momento decisivo tutti i loro mezzi dinanzi ai nemici e se ne mostrano indegni. Il fallimento farà crescere ancora il loro rancore, e ogni esperienza, per quanto insignificante, equivarrà per loro a un supplemento di fiele.

Non ci si addolcisce, non si diventa buoni se non distruggendo il meglio della propria natura, sottoponendo il proprio corpo alla disciplina dell'anemia e il proprio spirito a quella dell'oblio. Finché si conserva anche soltanto un'ombra di memoria, il perdono si riduce a una lotta coi propri istinti, a un'aggressione contro il proprio io. Sono le cattive azioni che ci conciliano con noi stessi, assicurano la nostra continuità, ci legano al passato, eccitano i nostri poteri evocativi; così pure, abbiamo immaginazione soltanto nell'attesa delle disgrazie altrui, nei moti del disgusto, in quella disposizione che ci spinge, se non a commettere infamie, per lo meno a sognarle. E come potrebbe essere diversamente su un pianeta dove la carne si propaga con l'impudenza di un flagello? Ovunque ci si volga, si inciampa nell'umano, ripugnante ubiquità dinanzi alla quale si cade nello stupore e nella rivolta, in un'ebetudine di fuoco. Un tempo, quando lo spazio era meno ingombro, meno infestato d'uomini, certe sètte, indubbiamente ispirate da una forza benefica, predicavano e praticavano la castrazione; ma, per un infernale paradosso, sono sparite proprio quando la loro dottrina sarebbe stata più opportuna e più salutare che mai. Maniaci della procreazione, bipedi dai volti deprezzati, abbiamo perduto ogni attrattiva reciproca, ed è soltanto su una terra semideserta, popolata tutt'al più da qualche migliaio di abitanti, che le nostre fisionomie potrebbero ritrovare l'antico prestigio. La moltiplicazione dei nostri simili rasenta l'immondo; il dovere di amarli, il grottesco. Ciò non toglie che tutti i nostri pensieri siano contaminati dalla presenza dell'umano, sappiano di umano e non riescano a liberarsene. Di quale verità potrebbero essere capaci, a quale rivelazione potrebbero elevarsi, quando questa pestilenza asfissia lo spirito e lo rende inadatto a considerare altro che l'animale pernicioso e fetido di cui subisce le emanazioni? Chi è troppo debole per dichiarare guerra all'uomo non dovrebbe mai dimenticare, nei suoi momenti di fervo-re, di pregare per l'avvento di un secondo diluvio, più radicale del primo.

La conoscenza rovina l'amore: nella misura in cui penetriamo nei nostri propri segreti, detestiamo i nostri simili, appunto perché ci somigliano. Quando non si hanno più illusioni su di sé, non se ne conservano sugli altri; l'innominabile che si scopre attraverso l'introspezione lo si estende, con legittima generalizzazione, al resto dei mortali; depravati nella loro essenza, non si sbaglia attribuendo loro tutti i vizi. Abbastanza curiosamente, la maggior parte di loro si rivela inadatta o restia a rintracciarli, a constatarli in sé o negli altri. È facile compiere il male: ci riescono tutti; assumerlo esplicitamente, riconoscerne la realtà inesorabile, è in compenso un'impresa insolita. In pratica, il primo venuto può rivaleggiare col diavolo; in teoria, non è la stessa cosa. Commettere orrori e concepire l'orrore sono due atti irriducibili l'uno all'altro: nessun punto in comune fra il cinismo vissuto e il cinismo astratto. Diffidiamo di coloro che aderiscono a una filosofia rassicurante, che credono nel Bene e lo erigono volentieri a idolo; non vi sarebbero pervenuti se, ripiegati onestamente su se stessi, avessero sondato le proprie profondità o i propri miasmi; ma coloro - quei rari, è vero -che hanno avuto l'indiscrezione o la sventura di immergersi fino all'intimità del loro essere, sono informati sul conto dell'uomo: non potranno più amarlo, perché non amano più se stessi, pur restando (e sarà il loro castigo) incatenati al loro io più di prima...

Perché possiamo conservare la fede in noi e negli altri, senza accorgerci del carattere illusorio, della nullità di ogni atto, quale che sia, la natura ri ha resi opachi a noi stessi, soggetti a un accecamento che genera e governa il mondo. Se intraprendessimo un'inchiesta esauriente su noi stessi, il disgusto ci paralizzerebbe e ci condannerebbe a un'esistenza sterile. L'incompatibilità fra l'atto e la conoscenza di sé sembra sia sfuggita a Socrate; altrimenti, nella sua qualità di pedagogo, di complice dell'uomo, avrebbe mai osato adottare la sentenza dell'oracolo, con tutti gli abissi di rinuncia che essa suppone e ai quali ci invita?

Finché si possiede una propria volontà e vi si resta fedeli (è l'accusa mossa a Lucifero), la vendetta è un imperativo, una necessità organica che definisce l'universo della diversità, dell'« io », e che non potrebbe avere alcun senso in quello dell'identità. Se fosse vero che « respiriamo nell'Uno » (Plotino), di chi ci vendicheremmo là dove ogni differenza si dilegua, dove comunichiamo nell'indistinto e vi perdiamo i nostri contorni? In realtà respiriamo nel molteplice; il nostro regno è quello dell'« io », e non c'è salvezza attraverso l'« io». Esistere significa accondiscendere alla sensazione, dunque all'affermazione di sé; da qui il non-sapere (con la sua conseguenza diretta : la vendetta), principio di fantasmagoria, fonte della nostra peregrinazione sulla terra. Più cerchiamo di strapparci al nostro « io », e più vi sprofondiamo. Tentiamo invano di farlo esplodere, nel momento stesso in cui crediamo di esserci riusciti eccolo apparire più sicuro che mai; tutto ciò che mettiamo in opera per rovinarlo non fa che accrescerne la forza e la solidità, e tali sono il suo vigore e la sua perversità che esso si dilata ancora meglio nella sofferenza che nel godimento. Così è per l'io; e così, a maggior ragione, per i nostri atti. Quando crediamo di essercene liberati, vi siamo più radicati che mai: anche degradati a simulacri, essi prevalgono su di noi e ci assoggettano. L'iniziativa intrapresa per convinzione o controvoglia, finiamo sempre con l'aderirvi, con Tesserne gli schiavi o le vittime. Nessuno si muove senza infeudarsi al molteplice, alle apparenze, all'« io ». Agire significa tradire l'assoluto.

La sovranità dell'atto deriva, diciamolo francamente, dai nostri vizi, che detengono una porzione d'esistenza maggiore di quanta ne possiedano le nostre virtù. Se sposiamo la causa della vita, e più in particolare quella della storia, si rivelano utili al massimo grado: non è forse grazie a essi che ci aggrappiamo alle cose e facciamo buona figura quaggiù? Inseparabili dalla nostra condizione, il fantoccio soltanto ne è sprovvisto. Voler boicottarli significa cospirare contro di sé, deporre le armi in pieno combattimento, screditarsi agli occhi del prossimo o restare vuoti per sempre. L'avaro merita che lo si invidi non per il suo denaro, ma proprio per la sua avarizia, che è il suo vero tesoro. Fissando l'individuo a un settore del reale, radicandolo in esso, il vizio, che non fa nulla alla leggera, lo occupa, lo approfondisce, gli offre una giustificazione, lo sottrae al vago. Il valore pratico delle manie, delle sregolatezze, delle aberrazioni non è più da dimostrare. Nella misura in cui ci ritiriamo in questo mondo, nell'immediato in cui si affrontano i voleri e infierisce la voglia di primeggiare, un piccolo vizio supera in efficacia una grande virtù. La dimensione politica degli esseri (intendendo per politica il coronamento del biologico) salvaguarda il regno degli atti, il regno dell'abiezione dinamica. Conoscere noi stessi significa identificare il movente sordido dei nostri gesti, l'inconfessabile iscritto della nostra essenza, la somma di miserie patenti o clandestine da cui dipende il nostro rendimento. Tutto ciò che emana dalle zone inferiori della nostra natura è investito di forza, tutto ciò che viene dal basso stimola: si produce e si lotta sempre meglio per invidia e rapacità che non per nobiltà e disinteresse. La sterilità minaccia soltanto chi non si degna di mantenere o divulgare le proprie tare. Quale che sia il settore che ci richiama, per potervi eccellere ci tocca coltivare il lato insaziabile del nostro carattere, vezzeggiare le nostre inclinazioni al fanatismo, all'intolleranza e alla vendetta. Nulla di più sospetto della fecondità. Se cercate la purezza, se aspirate a qualche trasparenza interiore, abdicate senza indugio al vostro ingegno, uscite dal circuito degli atti, mettetevi fuori dell'umano, rinunciate, per adoperare il gergo della pietà, alla « conversazione delle creature »...

Le grandi doti, lungi dall'escludere i grandi difetti, al contrario li invocano e li rafforzano. Quando i santi si accusano di questa e di quella colpa, bisogna creder loro sulla parola. L'interesse stesso che portano alle sofferenze altrui testimonia contro di loro. La loro pietà, la pietà in generale, che cos'è se non il vizio della bontà? Derivando la sua efficacia dal principio cattivo che nasconde, essa esulta di fronte alle prove degli altri, se ne delizia, ne assapora il veleno, si getta su tutti i mali che scorge o che prevede, sogna l'inferno come una terra promessa, lo postula, non riesce a farne a meno e, se non è distruttiva per se stessa, approfitta pur sempre di tutto ciò che distrugge. Estrema deviazione della bontà, essa finisce coll'esserne la negazione, nei santi più ancora che in noi. Per convincersene basta frequentare le loro Vite e contemplarvi la voracità con cui si precipitano sui nostri peccati, la nostalgia che provano per la caduta fulminea o per il rimorso interminabile, la loro esasperazione dinanzi alla mediocrità delle nostre scelleratezze e il loro rimpianto di non doversi tormentare di più per il nostro riscatto.

Per quanto in alto si vada, si rimane prigionieri della propria natura, della propria caduta originaria. Gli uomini dai grandi piani o semplice-mente d'ingegno, sono dei mostri, superbi e orridi, che danno l'impressione di meditare qualche terribile delitto; e, infatti, preparano la loro opera..., vi lavorano subdolamente come malfattori : non devono forse abbattere tutti coloro che seguono la loro stessa strada? Non ci si agita e non si produce se non per schiacciare degli esseri o l'Essere, dei rivali o il Rivale. A qualsiasi livello, gli animi si fanno guerra, si compiacciono e si crogiolano nella sfida: i santi stessi s'invidiano e si escludono, come gli dèi del resto, prova ne siano le perpetue risse, flagello di tutti gli Olimpi. Chi abborda il nostro stesso campo o il nostro stesso problema attenta alla nostra originalità, ai nostri privilegi, all'integrità della nostra esistenza, ci spoglia delle nostre chimere e delle nostre chances. Il dovere di rovesciarlo, di atterrarlo o almeno di vilipenderlo assume la forma di una missione, anzi di una fatalità. Ci piace soltanto chi si astiene, chi non si manifesta in alcun modo; ma, anche questi, non deve affatto accedere al rango di modello: il saggio riconosciuto eccita e legittima l'invidia. Anche un fannullone, se si distingue nella fannullaggine, se vi brilla, corre il rischio di farsi biasimare: richiama troppo l'attenzione su di sé... L'ideale sarebbe uno scomparire ben dosato. Nessuno ci riesce.

Non si acquista gloria se non a danno degli altri, di coloro che vi mirano allo stesso modo, e perfino la reputazione si ottiene soltanto al prezzo di innumerevoli ingiustizie. Chi è uscito dall'anonimato, o soltanto si sforza di uscirne, dimostra di aver eliminato ogni scrupolo dalla sua vita, di averla spuntata sulla propria coscienza, ammesso che ne abbia mai avuta una. Rinunciare alla propria fama significa condannarsi all'inattività; dedicarvisi, significa degradarsi. Bisogna pregare o scrivere preghiere, esistere o esprimersi? Certo è che il principio di espansione, immanente alla nostra natura, ci fa considerare i meriti altrui come un'usurpazione dei nostri, come una continua provocazione. Se la gloria ci è vietata, o inaccessibile, ne accusiamo coloro che l'hanno raggiunta, perché pensiamo che non abbiano potuto ottenerla se non rubandocela : ci spettava di diritto, ci apparteneva e, senza le macchinazioni di questi usurpatori, sarebbe stata nostra. « Assai più che la proprietà, è la gloria che è un furto » - ritornello dell'uomo inacidito e, fino a un certo punto, di noi tutti. La voluttà di essere sconosciuti o incompresi è rara; tuttavia, a ben pensarci, non equivale forse alla fierezza di aver trionfato sulle vanità e sugli onori, al desiderio di una fama inconsueta e, si direbbe, di una celebrità senza pubblico? E ciò è proprio la forma suprema, il colmo dell'appetito di gloria.

La parola non è troppo forte, perché si tratta veramente di un appetito, che affonda le sue radici nei nostri sensi e risponde a una necessità fisiologica, a un grido delle viscere. Per distaccarcene e vincerlo, dovremmo meditare sulla nostra insignificanza, acquisirne il sentimento vivo, senza trarne voluttà, perché la certezza di non essere niente conduce, se non si sta in guardia, al compiacimento e all'orgoglio: non si percepisce il proprio nulla e non vi si indugia a lungo senza aggrapparvisi sensualmente... C'è una qualche felicità nell'accanimento a denunciare la fragilità della felicità; così pure, quando si professa il disprezzo della gloria, si è ben lungi dall'ignorarne il desiderio, si sacrifica a essa nello stesso momento in cui se ne proclama l'inanità. Desiderio odioso, certamente, ma inerente alla nostra costituzione; per estirparlo occorrerebbe votare sia la carne sia lo spirito alla pietrificazione, rivaleggiare nell'incuriosità col minerale, dimenticare poi gli altri, evacuarli dalla nostra coscienza, perché il semplice fatto della loro presenza, raggiante e soddisfatta, risveglia il nostro cattivo genio, che ci ordina di spazzarli via e di uscire dalla nostra oscurità a danno del loro splendore.

Ce l'abbiamo con tutti coloro che hanno « scelto » di vivere nella nostra stessa epoca, che corrono al nostro fianco, intralciano i nostri passi o ci superano. In parole più chiare: ogni contemporaneo è odioso. Ci rassegniamo alla superiorità di un morto, mai a quella di un vivo, la cui esistenza stessa costituisce per noi un rimprovero e un biasimo, un invito alle vertigini della modestia. Eludiamo l'evidenza insostenibile che tanti nostri simili ci sorpassino arrogandoci, con un'astuzia istintiva o disperata, tutte le doti e attribuendo a noi soli il vantaggio di essere unici. Soffochiamo, vicino ai nostri emuli o ai nostri modelli: che sollievo davanti alle loro tombe!

Il discepolo stesso respira e si emancipa soltanto alla morte del maestro. Tutti quanti noi auspichiamo di cuore la rovina di coloro che ci eclissano colle loro doti, coi loro lavori o le loro imprese, e spiamo bramosamente, febbrilmente, i loro ultimi momenti. Un tale sale, nel nostro campo, più in alto di noi; ragione sufficiente per augurarci di esserne liberati: come perdonargli l'ammirazione che c'ispira, il culto segreto e doloroso che gli dedichiamo? Sparisca, si allontani, crepi insomma, perché possiamo venerarlo senza strazio né acrimonia, perché cessi il nostro martirio!

Se fosse un pochino accorto, invece di esserci grati del gran debole che abbiamo per lui, ci serberebbe rancore, ci taccerebbe di impostura, ci respingerebbe con disgusto o commiserazione. Troppo pieno di sé, senza alcuna esperienza del calvario dell'ammirazione né dei sentimenti contraddittori che provoca in noi, egli non sospetta che, sollevandolo su un piedestallo, abbiamo acconsentito ad abbassarci, e che di questo abbassamento gli toccherà pagare lo scotto: potremo mai dimenticare il colpo che egli ha dato, a sua insaputa, ne conveniamo, alla dolce illusione della nostra unicità e del nostro valore? Avendo commesso l'imprudenza o l'abuso di lasciarsi adorare troppo a lungo, gli tocca adesso subirne le conseguenze: per decreto della nostra stanchezza, da vero dio eccolo diventare falso, costretto a pentirsi di aver indebitamente occupato le nostre ore. Forse lo abbiamo venerato soltanto nella speranza di avere un giorno la nostra rivincita. Se ci piace prosternarci, ci piace ancora di più rinnegare coloro davanti ai quali ci siamo umiliati. Ogni lavoro di demolizione esalta, conferisce energia; da qui l'urgenza, da qui l'infallibilità pratica dei sentimenti vili. L'invidia, che fa di un poltrone un temerario, di un mostriciattolo una tigre, sferza i nervi, accende il sangue, comunica al corpo un brivido che gli impedisce di afflosciarsi, dà al volto più anodino un'espressione di ardore concentrato; senza l'invidia non ci sarebbero avvenimenti, e neanche mondo; è sempre lei che ha reso possibile l'uomo, gli ha permesso di farsi un nome, di accedere alla grandezza attraverso la caduta, attraverso questa rivolta contro la gloria anonima del paradiso, alla quale, al pari dell'angelo caduto, suo ispiratore e modello, egli non si poteva adattare. Tutto quello che respira, tutto quello che si muove attesta la macchia iniziale. Associati per sempre all'effervescenza di Satana, padrone del Tempo, a mala pena distinto da Dio, di cui non è altro che la faccia visibile, siamo preda di questo genio della sedizione che ci fa adempiere il compito di vivi istigandoci gli uni contro gli altri, in un combattimento deplorevole, certo, ma corroborante: usciamo dal torpore, ci animiamo, ogni volta che, vincendo i nostri sentimenti nobili, prendiamo coscienza del nostro ruolo di distruttori. L'ammirazione, invece, a furia di logorare la no-sua sostanza, ci deprime e alla lunga ci demoralizza; perciò ci rivolgiamo contro l'ammirato, colpevole di averci inflitto l'onere di innalzarci al suo livello. Egli non deve dunque meravigliarsi che ai nostri slanci verso di lui seguano indietreggiamenti, né che di tanto in tanto procediamo alla revisione delle nostre infatuazioni. Il nostro istinto di conservazione ci richiama all'ordine, al dovere verso noi stessi, ci costringe a riprenderci, a tornare padroni di noi. Non cessiamo di stimare o di incensare Tizio o Caio perché sono in causa i loro meriti, ma perché non possiamo valorizzarci se non a loro spese. Senza essersi inaridita, la nostra capacità di ammirazione attraversa una crisi durante la quale, abbandonati al fascino e ai furori dell'apostasia, passiamo in rassegna i nostri idoli per ripudiarli e farli a pezzi uno alla volta, e questa frenesia da iconoclasti, disprezzabile in se stessa, è tuttavia la molla che mette in moto le nostre facoltà.

Movente volgare, quindi efficace, dell'ispirazione, il risentimento trionfa nell'arte, che non potrebbe farne a meno - come la filosofia del resto: pensare significa vendicarsi con astuzia, saper camuffare le proprie infamie e velare i propri istinti malvagi. A giudicarlo da ciò che esclude e rifiuta, un sistema evoca un regolamento dei conti, abilmente condotto. Spietati, i filosofi sono dei « duri » come i poeti, come tutti coloro che hanno qualche cosa da dire. Se i dolci e i tiepidi non lasciano traccia, non è per mancanza di profondità o di perspicacia, ma di aggressività, la quale tuttavia non comporta affatto una vitalità intatta. Alle prese col mondo, il pensatore è spesso un fiacco, un rachitico, tanto più virulento quanto più sente la sua inferiorità biologica e ne soffre. Più sarà respinto dalla vita, e più cercherà di dominarla e di soggiogarla, senza tuttavia riuscirci. Abbastanza svantaggiato per inseguire la felicità, ma troppo orgoglioso per trovarla o per rassegnarvisi, reale e irreale nello stesso tempo, temibile e impotente, egli fa pensare a un misto di belva e di fantasma, a un pazzo furioso che viva per metafora.

Un rancore ben saldo, ben vigile, può costituire da solo l'armatura di un individuo: la debolezza di carattere deriva il più delle volte da una memoria difettosa. Non dimenticare l'ingiuria è uno dei segreti del successo, un'arte che possiedono senza eccezione gli uomini dalle convinzioni forti, giacché ogni convinzione è fatta principalmente di odio e, solo in secondo luogo, d'amore. Le perplessità sono invece il retaggio di chi, incapace appunto sia di amare sia di odiare, non può optare per nessuna cosa, nemmeno per i propri conflitti. Se vuole affermarsi, scuotere la sua apatia, recitare una parte, egli deve inventarsi dei nemici e aggrapparvisi, risvegliare la propria crudeltà addormentata o il ricordo di oltraggi imprudentemente disdegnati. Per fare il minimo passo avanti, occorre un minimo di bassezza, ne occorre anche per sopravvivere semplicemente. Nessuno deve rinunciare alle proprie risorse di indegnità se ci tiene a «perseverare nell'essere ». Il rancore conserva; se, inoltre, lo si sa mantenere, coltivare, si evitano la mollezza e l'insipidezza. Bisognerebbe, anzi, covarne verso le cose: quale migliore stratagemma per ritemprarsi al loro contatto, per aprirsi al reale e abbassarvisi con profitto? Spoglio di ogni carica vitale, un sentimento puro è una contraddizione in termini, un'impossibilità, una finzione. Difatti non esiste, neppure nella religione, campo in cui si crede che prosperi. Non si partecipa all'esistenza, e ancor meno alla preghiera, senza sanificare al demonio. Nella maggior parte dei casi ci dedichiamo a Dio per vendicarci della vita, per castigarla, per mostrarle che possiamo fare a meno di lei, che abbiamo trovato di meglio; e ci dedichiamo anche per orrore degli uomini, per decisione di rappresaglia contro di essi, per desiderio di far loro capire che, potendo essere ricevuti altrove, la loro società non ci è indispensabile, e che se strisciamo dinanzi a lui, è per non dover strisciare dinanzi a loro. Senza questo elemento meschino, torbido, subdolo, il nostro fervore mancherebbe di energia e forse non potrebbe nemmeno abbozzarsi.

I.'irrealtà dei sentimenti puri, si direbbe che tocchi ai malati rivelarcela, che sia questa la loro missione e il senso delle loro prove. Nulla di più naturale, perché in loro si concentrano e si esacerbano le tare della nostra razza. Dopo aver peregrinato attraverso le specie e lottato con maggiore o minore successo per imprimervi il suo marchio, la Malattia, stanca della sua corsa, ha dovuto certamente aspirare al riposo, cercare qualcuno su cui affermare in pace la sua supremazia, e che non si mostrasse affatto restio ai suoi capricci e al suo despotismo, qualcuno su cui potesse veramente contare. Brancolò, tentò a destra e a sinistra, sub! parecchie sconfitte. Incontrò finalmente l'uomo; a meno che non lo abbia creato. Così, siamo tutti dei malati, gli uni virtuali, la massa dei benportanti, sorta di umanità placida, inoffensiva; gli altri reali, i malati propriamente detti, minoranza cinica e appassionata. Due categorie vicine in apparenza, in realtà inconciliabili: una differenza notevole separa il dolore possibile dal dolore in atto.

Invece di prendercela con noi stessi, con la fragilità della nostra complessione, rendiamo responsabili gli altri del nostro stato, del minimo disturbo, perfino di un'emicrania, e li accusiamo di dover pagare noi per la loro salute, di restare inchiodati al letto solo perché loro si possano muovere e agitare a piacere. Con quale voluttà vedremmo il nostro male o il nostro malessere propagarsi, estendersi tutt'intorno e, se fosse possibile, all'intera umanità! Delusi nella nostra speranza, ce l'abbiamo con tutti, vicini o lontani, nutriamo nei loro confronti sentimenti di sterminio, desideriamo che siano ancora più minacciati di noi, e che l'ora dell'agonia, di un bell'annientamento in comune, suoni per la totalità dei vivi. Soltanto i grandi dolori, i dolori indimenticabili, distaccano dal mondo; gli altri, quelli mediocri, i peggiori moralmente, rendono servi del mondo, perché sommuovono i bassifondi dell'animo. Bisogna diffidare dei malati, hanno « carattere », sanno sfruttare e acuire i loro rancori. Uno di loro decise un giorno di non stringere mai più la mano di un uomo sano. Ma scoprì presto che molti di coloro che sospettava sani in fondo non lo erano. Perché farsi allora dei nemici sulla base di sospetti precipitosi? Evidentemente, era più ragionevole degli altri e aveva scrupoli non abituali alla razza alla quale apparteneva, banda frustrata, insaziabile e profetica, che si dovrebbe isolare perché vorrebbe tutto sconvolgere per imporre la propria legge. Affidiamo piuttosto gli interessi pubblici alla gente normale, la sola disposta a lasciare le cose come stanno: indifferente sia al passato che all'avvenire, essa si limita al presente e vi si insedia senza rimpianti né speranze. Ma non appena la salute cede, non si sogna più se non il paradiso e 1'inferno, la riforma insomma : si vorrebbe emendare l'irreparabile, migliorare o demolire la società, che non si può più sopportare, perché non si può più sopportare se stessi. Un uomo che soffre è un pericolo pubblico, uno squilibrato tanto più temibile in quanto nella maggior parte dei casi deve dissimulare il suo male, fonte della sua energia. Non è possibile mettersi in luce né recitare una parte quaggiù senza l'aiuto di qualche infermità, e non c'è dinamismo che non sia segno di disturbo organico o di devastazione interiore. Quando si conosce l'equilibrio, non ci si appassiona a nulla, non ci si interessa neppure alla vita, perché si è la vita; se l'equilibrio si rompe, invece di assimilarci alle cose, non si pensa più che a sconvolgerle o a manipolarle. L'orgoglio deriva dalla tensione e dall'esaurimento della coscienza, dall'impossibilità di esistere ingenuamente. Ora, i malati, che non sono mai ingenui, sostituiscono al dato l'immagine falsa che se ne fanno, di modo che le loro percezioni e perfino i loro riflessi partecipano di un sistema di ossessioni talmente imperiose che essi non possono trattenersi dal codificarle e infliggerle agli altri, legislatori perfidi e biliosi che si adoperano a rendere obbligatori i loro mali per colpire coloro che hanno la sfacciataggine di non condividerli. Se i sani si mostrano più accomodanti, se non hanno nessun motivo di essere intrattabili, è perché ignorano - loro - le virtù esplosive dell'umiliazione. Chi l'ha provata non la dimenticherà mai, e non avrà pace fin quando non l'avrà trasferita in un'opera suscettibile di perpetuarne le angosce. Creare significa trasmettere le proprie sofferenze, significa volere che gli altri vi si immergano e le assumano su di sé, se ne impregnino e le rivivano. Ciò è vero per un poema, ciò può essere vero per il cosmo. Senza l'ipotesi di un dio febbrile, braccato, soggetto alle convulsioni, ebbro di epilessia, non si potrebbe spiegare quest'universo, che reca dovunque le tracce d'una bava originaria. E di questo dio non intuiamo l'essenza se non quando siamo noi stessi in preda a un tremito quale egli dovette provare al momento in cui lottava col caos. Pensiamo a lui con tutto ciò che in noi ripugna alla forma o al buon senso, con le nostre confusioni e il nostro delirio, lo raggiungiamo con implorazioni in cui ci smembriamo in lui e lui in noi, giacché egli ci è vicino ogni volta che in noi si spezza qualche cosa e che, a modo nostro, anche noi ci misuriamo col caos. Teologia sommaria? Contemplando questa Creazione abborracciata, come non incriminarne l'autore, come soprattutto crederlo abile o semplicemente accorto? Qualsiasi altro dio avrebbe dimostrato maggior competenza o equilibrio di lui: errori e guazzabugli dovunque si guardi! Impossibile assolverlo, ma anche impossibile non comprenderlo. E lo comprendiamo con tutto ciò che vi è in noi di frammentario, incompiuto, e mal riuscito. La sua impresa porta le stigmate del provvisorio, eppure non gli è mancato il tempo per condurla a buon fine. Per nostra disgrazia, è stato inspiegabilmente frettoloso. E per una legittima ingratitudine, e per fargli sentire il nostro malumore, ci dedichiamo - esperti in contro-Creazione - a deteriorarne l'edificio, a rendere ancora peggiore un'opera già compromessa in partenza. Certo sarebbe più saggio ed elegante non metterci affatto le mani, lasciarla tal quale, non vendicarci su di essa dell'incapacità del suo autore; ma, siccome egli ci ha trasmesso i suoi difetti, noi non potremmo avere riguardi verso di lui. Se, tutto sommato, lo preferiamo agli uomini, ciò non lo mette al riparo delle nostre collere. Forse lo abbiamo concepito soltanto per giustificare e rigenerare le nostre rivolte, dare loro un oggetto degno, impedire che si estenuassero e si avvilissero, esaltandole mediante l'abuso riconfortante del sacrilegio, replica alle seduzioni e agli argomenti dello scoraggiamento. Non la si finisce mai con Dio. Trattarlo da pari a pari, da nemico, è un'impertinenza che fortifica, che stimola, e sono veramente da compiangere coloro che egli ha cessato di irritare. Quale fortuna, invece, poter disinvoltamente fargli assumere la responsabilità di tutte le nostre miserie, sopraffarlo e ingiuriarlo, non risparmiarlo un solo momento, neppure nelle nostre preghiere!

Al rancore, di cui non abbiamo il monopolio, è soggetto anche lui (come attestano parecchi libri sacri), perché la solitudine, fosse anche assoluta, non preserva affatto da questo sentimento. Che essere solo non sia bene neppure per un dio significa in breve: creiamo il mondo per avere qualcosa con cui pigliarcela, su cui esercitare il nostro brio e le nostre angherie. E quando il mondo svanisce, resta, uomo o dio che sia, questa forma sottile di vendetta: la vendetta contro di sé, occupazione assorbente, tutt'altro che distruttrice perché dimostra che si viene ancora a patti con la vita, che si aderisce a essa proprio attraverso le torture che ci infliggiamo. L/osanna non è nelle nostre abitudini. Ugualmente impuri, anche se in modo diverso, il principio divino e il principio diabolico si concepiscono facilmente; gli angeli, invece, sfuggono alla nostra presa. E se non riusciamo veramente a raffigurarceli, se sconcertano la nostra immaginazione, è perché, al contrario di Dio, del diavolo e di tutti noi, soltanto loro - quando non sono sterminatori! - fioriscono e prosperano senza lo stimolo del rancore. E, occorre aggiungerlo?, senza quello dell'adulazione, di cui non potrebbero fare a meno gli animali indaffarati che noi siamo. Dipendiamo, per operare, dall'opinione del nostro prossimo; sollecitiamo, ne mendichiamo gli o-maggi; inseguiamo senza pietà coloro che emettono su di noi giudizi sfumati o anche equi e, se ne avessimo i mezzi, li costringeremmo a e-metterne di esagerati, di ridicoli, sproporzionati alle nostre attitudini o alle nostre realizzazioni. Dato che l'elogio misurato si riduce a un'ingiustizia, l'obiettività a una sfida, la riserva a un insulto, che cosa aspetta dunque l'universo per rotolarsi ai nostri piedi? Ciò che cerchiamo, ciò che postuliamo nello sguardo altrui è l'espressione servile, un'infatuazione non dissimulata per i nostri gesti e per le nostre elucubrazioni, la confessione di un ardore senza secondi fini, l'estasi davanti al nostro nulla. Moralista profittatore, psicologo e insieme parassita, l'adulatore conosce il nostro debole e lo sfrutta impudentemente. E tale è il nostro decadimento che, senza arrossire, accettiamo come tali eccessi, trabocchi di ammirazione premeditati e falsi, giacché preferiamo le premure della menzogna alla requisitoria del silenzio. Mescolata alla nostra fisiologia, alle nostre viscere, l'adulazione colpisce le nostre ghiandole, si associa alle nostre secrezioni e le stimola, mira, inoltre, ai nostri sentimenti più ignobili, e quindi più profondi e naturali, suscita in noi un'euforia di bassa lega, alla quale assistiamo storditi; altrettanto storditi consideriamo gli effetti del biasimo, ancora più forti, poiché toccano, per scuoterle, le fondamenta stesse del nostro essere. Siccome nessuno attenta a esse impunemente, replichiamo sia colpendo senza indugio, sia elaborando fiele, il che equivale a una controffensiva meditata. Per non reagire occorrerebbe una metamorfosi, un cambiamento totale, non soltanto delle nostre disposizioni, ma dei nostri stessi organi. Dato che una simile operazione non è molto imminente, ri inchiniamo di buon grado davanti alle manovre della lusinga e alla sovranità del rancore. Reprimere il bisogno di vendetta significa congedare il tempo, togliere agli avvenimenti la possibilità di prodursi, significa pretendere di licenziare il male e, con esso, l'atto. Ma l'atto, avidità d'annientamento consustanziale all'io, è una rabbia che superiamo solamente in virtù di quei momenti in cui, stanchi di tormentare i nostri nemici, li abbandoniamo alla loro sorte, li lasciamo marcire e vegetare perché non li amiamo più abbastanza per accanirci a distruggerli, a sezionarli, a farne l'oggetto delle nostre anatomie notturne. Tuttavia la rabbia ci riprende non appena si ravvivi quel gusto delle apparenze, quella passione del derisorio, di cui è fatto il nostro attaccamento all'esistenza. Anche ridotta all'infimo, la vita si nutre di se stessa, tende verso un supplemento d'essere, vuole accrescersi senza alcun motivo, per un automatismo disonorante e irreprimibile. Una stessa sete divora il moscerino e l'elefante; si sarebbe potuto sperare che si sarebbe spenta nell'uomo; abbiamo visto che non è affatto vero, che essa infierisce con accresciuta intensità fra gli infermi stessi. La capacità di rinuncia costituisce l'unico criterio del progresso spirituale: non è quando le cose ci abbandonano, ma quando noi le abbandoniamo, che accediamo alla nudità interiore, a quel punto estremo in cui non ci siamo più affiliati a questo mondo né a noi stessi, e in cui vittoria significa abdicare, rifiutarsi con serenità, senza rimpianti e soprattutto senza malinconia; giacché la malinconia, per quanto discrete ed eteree ne siano le apparenze, appartiene ancora al risentimento: è una fantasticheria improntata di acredine, un'invidia travestita da languore, un rancore evanescente. Finché vi si resta assoggettati, non si rinuncia a nulla, ci si impantana nell'«io», senza tuttavia liberarsi degli altri, ai quali si pensa tanto più in quanto non si è riusciti a spossessarsi di sé. Nel momento stesso in cui ci ripromettiamo di vincere la vendetta, la sentiamo più che mai esasperarsi in noi, pronta all'attacco. Le offese « perdonate » chiedono subito riparazione, invadono le nostre veglie e, più ancora, i nostri sogni, si tramutano in incubi, sprofondano tanto nei nostri abissi che finiscono col costituirne la materia. Se è così, a che prò recitare la farsa dei sentimenti nobili, puntare su un'avventura metafisica o sperare nel riscatto? Vendicarsi, sia pure solo idealmente, significa porsi irrimediabilmente al di qua dell'assoluto. Si tratta proprio dell'assoluto! Non solamente le ingiurie « dimenticate » o sopportate in silenzio, ma anche quelle che abbiamo ricambiate, ci rodono, ci sfibrano, ci assillano sino alla fine dei nostri giorni, e questo assillo, che dovrebbe squalificarci ai nostri propri occhi, invece ci lusinga, e ci rende bellicosi. Il minimo affronto, una parola, uno sguardo contaminato da qualche riserva, non li perdoniamo mai a un vivo. E non è neanche vero che glieli perdoniamo dopo la morte. L'immagine del suo cadavere ci placa, certo, e ci costringe all'indulgenza; ma non appena l'immagine sfuma e nella nostra memoria la figura del vivo prevale su quella del defunto e la sostituisce, i nostri vecchi rancori risorgono, riprendono con maggiore lena e con tutto quel corteo di vergogne e umiliazioni che dureranno quanto noi e il cui ricordo sarebbe eterno, se ci fosse riservata l'immortalità.

Poiché tutto ci ferisce, perché non rinchiuderci nello scetticismo e tentare di cercarvi un rimedio alle nostre piaghe? Sarebbe un ulteriore inganno, dato che il Dubbio non è che un prodotto delle nostre irritazioni e dei nostri torti, e come lo strumento di cui lo scorticato si serve per soffrire e far soffrire. Se demoliamo le certezze non è per scrupolo teorico o per gioco, ma per la rabbia di vedere che si sottraggono, e anche per il desiderio che non appartengano a nessuno, dal momento che ci sfuggono e non ne possediamo nessuna. E con quale diritto gli altri dovrebbero trarre profitto dalla verità? Per quale ingiustizia essa si sarebbe svelata a loro, che valgono meno di noi? Hanno penato, hanno vegliato per meritarla? Mentre noi ci sfianchiamo invano per raggiungerla, essi si pavoneggiano come se fosse loro riservata e come se ne fossero garantiti per decreto della provvidenza. Essa tuttavia non potrebbe essere il loro appannaggio, e, per impedir loro di rivendicarla, li persuadiamo che, mentre credono di tenerla in pugno, in realtà si sono appropriati soltanto una finzione. Per mettere al riparo la nostra coscienza, ci piace discernere nella loro felicità una certa ostentazione, una certa arroganza, il che ci permette di turbarli senza rimorsi e di renderli, inoculando loro i nostri stupori, vulnerabili e disgraziati tanto quanto lo siamo noi stessi. Lo scetticismo è il sadismo delle anime esulcerate.

Più insistiamo sulle nostre ferite, e più ci appaiono inseparabili dalla nostra condizione di non-liberati. Il massimo di distacco cui possiamo aspirare è di mantenerci in una posizione equidistante sia dalla vendetta sia dal perdono, al centro di una collera e di una generosità ugualmente flaccide e vuote, perché destinate a neutralizzarsi a vicenda. Ma a spogliarci dell'uomo vecchio non riusciremo mai, neppure se dovessimo spingere l'orrore di noi stessi fino a rinunciare per sempre a occupare un posto qualunque nella gerarchia degli esseri.