DI MARIO ANDREA RIGONI
C'est qu'en politique, corame en tout,
on ne s'accomplit que sur sa propre ruine.
CIORAN
Era fatale che la millenaria parata delle filosofie, dei sistemi, delle dottrine e delle « concezioni del mondo » dovesse un giorno esaurirsi per sempre, restituendo il pensiero alla nudità dimenticata, alla violenza brada e al puro paradosso di tutto ciò che è. Il racconto, mai scritto, di questo processo necessario e temibile sarebbe la narrazione della nascita e dello sviluppo non di un'ennesima nuova teoria, ma piuttosto di un'ultrateoria scaturita dal fallimento di tutte le teorie; d'una condizione di lucidità certamente affiorata, anche in modo accecante, nei tempi e nei luoghi più lontani e diversi, ma dispiegatasi nella massima ampiezza e continuità soltanto quando il pensiero aveva ormai raggiunto l'ultimo limite di se stesso in corrispondenza di un'accelerata e tragica progressione, di un accumulo e di un consumo vertiginoso di esperienza e di storia. L'oppressione storica della terra « nella sera dell'umane cose », che Leopardi lamenta agli inizi dell'Ottocento nelle sue riflessioni e nei suoi canti, è un fattore decisivo dell'inaudito risveglio della coscienza che caratterizza, non più come semplice episodio, ma come situazione diffusa, la civiltà occidentale degli ultimi secoli. Esso rappresenta, per stare ancora a Leopardi, al testimone e alla vittima forse più precoce, certo più pura e geniale del fenomeno, un funesto dissigillarsi degli occhi, un trapasso definitivo dalla vitale cecità dell'illusione alla verità - una verità interamente negativa, ricca soltanto della propria polvere, colma soltanto del proprio nulla. La modernità nasce precisamente con questa drammatica scoperta: il vero uccide la vita, che solo l'oblio rende possibile. « Tutto il piano della natura intorno alla vita umana » scrive Leopardi nel Frammento sul suicidio « si aggira sopra la gran legge di distrazione, illusione e dimenticanza. Quanto più questa legge è svigorita tanto più il mondo va in perdizione ». Ma, sventuratamente, la lucidità è un cerchio dal quale non si può più uscire una volta che vi si sia messo piede e, in effetti, almeno dal Sette-Ottocento in poi, non si contano, in tutti gli ambiti dell'espressione, le opere che recano in qualche modo le stigmate di questa rivelazione crocifiggente, insieme privilegiata e maledetta, liberatoria e paralizzante, perché non si avanza nella conoscenza senza minare al contempo l'esistenza, non si accede al fondamentale senza cadere nell'inestricabile, non ci si emancipa senza andare incontro alla vacuità e alla stagnazione.
L'unico pensatore del nostro tempo che, respingendo ogni formula o categoria e anzi ogni sorta di professionismo intellettuale, abbia espresso nei suoi scritti la condizione stessa dell'uomo interamente disingannato, ondeggiante fra la saggezza, la tragedia e la farsa, è Cioran. Se questo è il senso della sua presenza, appare evidente che egli non possa e non voglia essere in alcun modo un « filosofo originale » : non c'è filosofia e non c'è neppure originalità senza una qualche specie d'ingenuità, dono o limite ignoto a un autore come lui, che giunge al tramonto dell'Occidente, che anzi ambisce al ruolo di profeta, se non già di storico, della fine della storia. È dunque naturale che la sua opera, grande « précis de décomposition », summa dell'Impossibile e dell'Insanabile, sia un precipitato, più che una creazione, di conoscenza e che essa trovi ispirazione e materia non in Platone o in Kant, in Hegel o in Marx, in Freud o in Heidegger e nemmeno in Nietzsche (se non è il Nietzsche puramente psicologo), ma in Buddha e in Qohèlet, nei cinici, negli scettici e negli gnostici antichi, in Tacito e in Machiavelli, in Swift e in Madame du Deffand, in Pascal e nei moralisti francesi, nei poeti e negli scrittori che non sono soltanto grandi artisti, da Shakespeare a Baudelaire, da Leopardi a Dostoevskij e, infine, in tutti i transfughi dell'ordine, della norma e dell'impostura esistenziale e sociale, dagli eretici ai suicidi, dai mistici ai clochards. Ma l'interesse assoluto di Cioran consiste proprio in questo: nell'aver attirato elementi disparati della lucidità più selvaggia in una rappresentazione di densità e, insieme, di trasparenza sconvolgente, grazie all'invenzione di un linguaggio che sembra aver dileguato, nello stile aforistico, ogni traccia di mediazione, ogni residuo di apparenza. È un'istantanea, magica presa sull 'essenziale che costituisce la forza e il fascino delle sue pagine, nate da un rapporto trafiggente con la vita e con le cose, non dalle divagazioni del concetto. Metafisico e psicologo implacabile, prosatore superbo (uno dei tre o quattro massimi della letteratura francese dell'ultimo mezzo secolo), Cioran si è consacrato a un'orchestrazione definitiva delle « verità tanto inconfutabili quanto impraticabili: banalità, evidenze distruttrici d'equilibrio, luoghi comuni che rendono pazzi » - per applicare a lui stesso una di quelle formule frappantes che scoccano come lampi ininterrotti dalla sua laconica e visionaria scrittura. E il fatto di essere un parigino emigrato dalla Romania, un fin de race con le viscere di un balcanico, un frequentatore di tutte le decadenze con la nostalgia della freschezza barbarica, ne ha favorito indubbiamente la vocazione all'estremo e agli estremi, la capacità di unire il distacco e la furia, l'eleganza e lo spasmo, la sottigliezza e l'eccesso, e quell'esperienza dei contrasti, delle impasses e delle ambivalenze irriducibili cui approda la mente che ha toccato il reale.
Delle sue opere, almeno delle « maggiori » (Précis de décomposition, La tentation d'exister, Hìstoire et utopie, La chute dans le temps, De l'inconvénient d'ètre né, Écartèlement), sarebbe difficile dire quale sia la più bella o la più significativa perché, pur nella diversità degli oggetti e delle forme del discorso, esse rappresentano sempre con uguale intensità uno stesso dramma, un'unica grande ossessione. Forse le meditazioni del Précis de décomposition si distinguono per una più diretta e costante accensione poetica: in ogni caso, è certo che questo libro indimenticabile, il primo da lui pubblicato in lingua francese (1949), contiene già in nuce i successivi. Esso costituisce anche lo sfondo e il presupposto della riflessione politica che si manifesterà in modo preciso e specifico (dopo i Syllogismes de l'amertume, raccolta di aforismi vari del 1952) sia in alcune pagine della Tentation d'exister (1956) sia, soprattutto, nella serrata, smagliante prefazione a una scelta di testi di Joseph de Maistre (1957), ripubblicata in seguito, come volumetto autonomo, col titolo Essai sur la pensée réac-tionnaire. È qui che, analizzando le « enormità » che mantengono vivo e attuale il pensiero dello scrittore savoiardo, Cioran ha modo di riferire alla sfera propriamente politica gli effetti di quel principio satanico per il quale « ogni progresso implica un arretramento, ogni ascesa una caduta » e « una forza occulta [...] conduce ogni movimento a negarsi da sé, a tradire la sua ispirazione originaria e a corrompersi a mano a mano che si afferma e avanza». Così la rivoluzione si lascia distinguere dalla reazione che essa esecra e combatte soltanto finché non si realizza, finché resta una virtualità e un'astrazione : « Il concreto, che viene fortunatamente a denunciare la comodità delle nostre spiegazioni e dei nostri concetti, ci insegna che una rivoluzione che è riuscita, che si è insediata, divenuta il contrario di un fermento e di una nascita, cessa di essere una rivoluzione, che essa imita e deve imitare la fisionomia, l'apparato e perfino il funzionamento dell'ordine che ha rovesciato; più vi si dedica (e non può fare altrimenti) e più distruggerà i propri princìpi e il proprio prestigio. Ormai conservatrice a suo modo, si batterà non per difendere il passato, ma il presente. Niente l'aiuterà tanto quanto il seguire le vie e i metodi di cui si serviva, per mantenersi, il regime che essa avrà abolito. Perciò, allo scopo di assicurare la durata alle conquiste di cui si vanta, abbandonerà le visioni esaltate e i sogni da cui lino ad allora aveva tratto gli elementi del proprio dinamismo. Veramente rivoluzionario è soltanto il momento pre-rivoluzionario, quello in cui gli spiriti sottoscrivono al duplice culto dell'avvenire e della distruzione. Finché una rivoluzione non è che una possibilità, trascende i dati e le costanti della storia, ne evade - per così dire - il quadro; ma, non appena si instaura, vi rientra e vi si conforma e, prolungando il passato, ne segue il solco; essa vi riuscirà tanto meglio in quanto utilizzerà i mezzi della reazione che aveva in precedenza condannato. Perfino l'anarchico dissimula, nel più profondo delle sue rivolte, un reazionario che attende la propria ora, l'ora della presa del potere, in cui la metamorfosi del caos... in autorità pone problemi che nessuna utopia osa risolvere e nemmeno prospettare senza cadere nel lirismo o nel ridicolo ». Storia e utopia, apparso nel 1960 (ma i primi due saggi della raccolta furono scritti nel 1957, subito dopo la rivolta ungherese), investe in modo più ampio e argomentato quel tema della psicologia e della dinamica del potere che, nonostante il precoce svelamento operato da Machiavelli e la quotidiana evidenza dei fatti, è destinato a essere eternamente obnubilato dalle attese e dalle speranze, cioè dagli equivoci. Se Cioran ne è indenne, lo deve a un'osservazione delle cose intatta non solo dall'ideologia ma anche dal semplice gioco delle idee, cioè all'assenza di un punto di vista: questo significa, indubbiamente, porsi al di fuori di tutto, negarsi al conforto delle superstizioni umanistiche, condannarsi all'impossibilità d'una qualunque scelta; ma esiste un altro modo di decifrare, descrivere e giudicare, senza falsarlo, quell'universo della contaminazione totale che sono la politica e la storia? I sei saggi che compongono il libro sono, alla fine, una rassegna dei costernanti paradossi in cui urta a ogni passo la riflessione morale e politica, perché una legge perversa e inesorabile, iscritta nella natura stessa dell'essere, vuole che lo spirito si associ alla malattia, la coscienza alla sterilità, la civiltà alla decadenza, la saggezza e l'equilibrio all'inanità, come d'altra parte la salute alla barbarie, la fecondità all'irriflessione, l'avvenire all'istinto, l'efficacia allo squilibrio e alla demenza. Scandalo supremo, la libertà. Senza di essa non si può realmente vivere, ma quando la si raggiunga ciò che viene a mancarvi è proprio la vita, la forza, la durata, il futuro: « per manifestarsi la libertà esige [...] il vuoto: lo esige - e vi soccombe. La condizione che la determina è la stessa che la annulla. Essa manca di basi: più sarà completa, e più sarà instabile, perché tutto la minaccia, perfino il principio da cui emana. L'uomo è cosi poco adatto a sopportarla o a meritarla che gli stessi benefici che ne riceve lo schiacciano, ed essa finisce col pesargli al punto che agli eccessi che suscita egli preferisce quelli del terrore [...] Inoltre essa appare soltanto in virtù di un regime che volge alla fine, al momento in cui una classe declina e si dissolve: le mancanze dell'aristocrazia consentirono al Settecento di divagare magnificamente; quelle della borghesia ci permettono oggi di abbandonarci ai nostri capricci. Le libertà prosperano soltanto in un corpo sociale malato: tolleranza e impotenza sono sinonimi. Ciò è evidente in politica, come in tutto il resto ». Da qui la fortuna e il vantaggio che detiene, rispetto all'anemia, alle perplessità e agli scrupoli autodistruttivi delle democrazie occidentali, giunte a un grado di civiltà, di raffinatezza e di complicazione che « non si supera se non discendendo », l'incontenibile automatismo dell'impero russo, destinato a una fatale ascesa proprio perché risparmiato per secoli dal logoramento della storia, conservato e protetto dall'autocrazia in un'esistenza separata, oscura e repressa in cui ha potuto accumulare immense riserve di energia e di delirio, coltivare quel sogno di « salvezza », cioè di conquista e di dominio del mondo, mai abbandonato dallo zarismo e dall'ortodossia, né dal regime sovietico. « Con le sue anime foggiate nelle sètte e nelle steppe » la Russia « dà una singolare impressione di spazio e di chiuso, d'immensità e di soffocamento, di Nord insomma, ma di un Nord speciale, irriducibile alle nostre analisi, segnato da un sonno e da una speranza che fanno fremere, da una notte ricca di esplosioni, da un'aurora di cui ci si ricorderà [...] L'apocalisse le si adatta a meraviglia, ne ha l'abitudine e il gusto, e oggi vi si esercita più che mai, perché ha visibilmente cambiato ritmo. “ Dove corri così, o Russia? ”, si chiedeva già Gogol', che aveva percepito la frenesia che essa nascondeva sotto l'apparente immobilismo. Adesso sappiamo dove corre, sappiamo soprattutto che, a somiglianza delle nazioni dal destino imperiale, è più impaziente di risolvere i problemi degli altri che i suoi propri. Quanto dire che il nostro cammino nel tempo dipende da ciò che la Russia deciderà o intraprenderà: essa tiene in pugno il nostro avvenire... ». Ecco la valutazione biologica che Cioran - désabusé del comunismo tanto quanto della democrazia, capace come nessuno di coglierne le opposte e simmetriche contraddizioni, diviso fra il plauso della forza e dell'affermazione spregiudicatamente vitale e una saggezza tragica che scorge nel « respiro » stesso un preludio di fanatismo e di catastrofe -formulava venticinque anni fa, quando la Russia era per tutti, in Europa e nel mondo, oggetto o di una fede o di una condanna ugualmente fuorviami perché dettate dalla pura e cieca ideologia. Gli eventi susseguitisi da allora avrebbero confermato in modo sempre più allarmante questa diagnosi, perché (egli vi insiste in tutti i suoi libri sulla traccia di ricorrenti analogie storiche) non è concesso a una civiltà o a una società, come del resto a un individuo, di sbarazzarsi impunemente delle finzioni e degli idoli che ne garantiscono la coesione e la sopravvivenza. Tale affermazione dell'elemento slavo era già stata profetizzata nel secolo scorso sia da Herzen, che Cio-ran ricorda (« Gli slavi non sono forse gli antichi Germani in rapporto al mondo che se ne va? »), sia anche, con precisione ancora più sbalorditiva, da Nietzsche (« Il potere diviso fra anglosassoni e slavi e l'Europa come la Grecia sotto la signoria di Roma »). L'unica fioca speranza rimasta agli europei è che i russi si lascino attrarre e contagiare dalla loro democrazia, dalle seduzioni del loro crepuscolo: in una tale evenienza, « si inciviliranno a svantaggio dei propri istinti e, lieta prospettiva, conosceranno anch'essi il virus della libertà ». Solo che il fascino ambiguo che la Russia poteva esercitare in passato, non agli occhi, no certo!, dei comunisti occidentali, ma di uno spettatore revenn de tout come Cioran, è oggi anch'esso completamente dissolto. Per una volta, la realtà si rivela forse ancora più amara di quanto lui stesso abbia previsto. L'enigma minaccioso della Russia rimane, anzi si infittisce giorno per giorno, ma nel vuoto e nel tetro assoluti. Gli « iperborei » evocati da Cioran maneggiano ormai, squallidi automi, solo testate nucleari; nell'universale, e sempre più precipitosa, degradazione del mondo, anche l'istinto ha cessato di essere una promessa, anche la barbarie si è spogliata dell'ultima ombra di prestigio e di grandezza. Resta il fatto che il movimento reale della storia, a incominciare dal più semplice avvenimento, affonda le sue radici in una forza bruta e insaziabile: l'analisi della dinamica politica sia nei regimi dispotici sia nelle loro caricature involontarie, i regimi liberali o democratici, mostra soltanto le variazioni di intensità di un medesimo appetito di potenza che divora il mondo e che, in un futuro prossimo o remoto, non potrà non condurre a una fosca tirannide planetaria, di cui quelle della nostra e-poca, e in particolare quella hitleriana, sono abbozzi e prefigurazioni; e la violenza (non certo l'accordo) che unificherà i continenti potrà contare su una risorsa inedita e terrificante, la scienza, da sempre destinata - come già sapeva l'autore della Genesi - « non a liberarci, ma ad asservirci ». D'altra parte, l'appetito di potenza non può essere estirpato dalla politica e, più in generale, dalla storia, perché insito nell'essenza dell'agire, conseguenza diretta della colpa originaria, della frattura dell'assoluto; sottrarglisi significherebbe abdicare all'esistenza stessa, al mondo dell'individuazione, alla possibilità di essere o di diventare, in qualsiasi ambito e in qualsiasi modo, qualcosa o qualcuno. Il potere, nella sua incarnazione più odiosa ma anche più naturale, la tirannide politica o spirituale, è soltanto il terreno d'analisi privilegiato di un imperativo demoniaco che determina ogni manifestazione umana, anche la più alta, anche la pietà dei santi, questa sottile perversione, questo « vizio della bontà ». Non ci si conserva, non ci si esprime, non si agisce e non si produce se non attingendo alla forza e alla fecondità del male : « Per fare il minimo passo in avanti, occorre un minimo di bassezza, ne occorre anche per sopravvivere semplicemente. Nessuno deve rinunciare alle proprie risorse di indegnità se ci tiene a ‘ perseverare nell'essere ' », si legge nella sorprendente Odissea del rancore. Tutte le forme di efficacia, di rendimento e di realizzazione nel mondo provengono soltanto dalle zone inferiori dell'io, dai sentimenti ignobili, dalle reazioni vili, in particolare dall'invidia e dalla vendetta, che Cioran promuove al rango non solo di norma psicologica e politica, ma di principio cosmogonico, dato che senza la volontà di affermazione che esse rappresentano nel modo più immediato « non vi sarebbero avvenimenti, e neanche mondo » : da questa febbre non è esente, in quanto creatore, neppure Dio stesso, di cui « Satana, padrone del Tempo [...] non è altro che la faccia visibile ». È l'atto, come tale, la negazione e la perdita di quell'età dell'oro che le utopie antiche hanno proiettato nel passato e le moderne nel futuro. Cercare di ricreare la felicità sulla terra per il tramite dell'atto, coniugare il sogno del paradiso alla maledizione del divenire, è dunque un controsenso mostruoso; e tuttavia questo controsenso tesse la trama stessa del nostro destino, in cui la speranza non si lascia separare dall'orrore, il progresso dallo sfacelo, l'utopia dall'apocalisse. Se c'è mai una salvezza o una redenzione, non verrà certamente dal mondo storico, « regno dell'abiezione dinamica », ma dalla riscoperta del « principio atemporale della nostra natura », dalla percezione interiore di un « eterno presente, conquistato sul divenire e sull'eternità stessa », di cui Dio non sarebbe che la « ripetizione superflua ». La discesa di Cioran nel maelstrom dell'agire, scrutato e descritto secondo una prospettiva che partecipa al contempo della biologia e della gnosi (le uniche chiavi, probabilmente, che consentano di penetrare i fenomeni), si conclude con questa escatologia solitaria e negativa, emancipata ugualmente dall'inferno della storia e dai paradisi fittizi dell'utopia o della teologia: essa è tanto più significativa in quanto emana da uno spirito tutt'altro che incline, per natura, all'ascesi, che anzi avverte fino alla convulsione, non occorre dirlo, il richiamo e la fatalità dell'atto.
Non c'è infine sintesi o esegesi o corollario possibile di un pensiero che, nonostante la ricchezza e la varietà dell'articolazione, non conosce propriamente né latenze né sviluppi, né positività né direzione, perché il suo movimento consiste nel percorrere il diritto e il rovescio di ogni manifestazione, nel rivelare la complicità che sottende gli opposti, nel mettere a nudo l'inestinguibile duplicità del reale, col risultato di giungere immancabilmente al circolo vizioso e dunque all'« irresoluzione assoluta». È anzi l'esito - e il prodigio - che normalmente sortisce l'impresa conoscitiva e stilistica di Cioran quello di fulminare l'oggetto, togliendo la parola al critico non meno che al lettore qualunque. Il prisma disperantemente perfetto dell'assurdo che egli ha ricomposto e animato in tutte le sue facce e i suoi riflessi, non mostra, almeno per il momento, opacità o interstizi; vale più che mai per Storia e utopia e per gli altri suoi libri, per questi specchi purissimi della gloria e della catastrofe della lucidità, quello che vale forse per tutti i veri libri: che chiunque può esserne illuminato, ma nessuno potrebbe servirsene.
Quando questo libro apparve, nel 1960, suonò come una voce appartata, subito coperta dal chiasso delle cose in baldanzoso movimento; oggi quello stesso movimento delle cose lo ha suffragato, a distanza di tempo, in modo allarmante. Ma Cioran non va misurato su alcuna attualità che non sia quella, perenne, di una caduta originaria, la « caduta nel tempo ». Come leggiamo in questo libro, « una volta cacciato dal paradiso, l'uomo, perché non ci pensasse più e non ne soffrisse, ottenne in compenso la facoltà di volere, di tendere all'atto, di inabissarvisi con entusiasmo, con brio ». Di quell'accecato entusiasmo, di quel sinistro brio è fatto ciò che da qualche secolo chiamiamo storia. All'interno di essa agiscono certe forze immense che non solo gli storici, ma i pudibondi psicologi dimenticano sempre più spesso di nominare. Cioran sa osservarle con la maestria di un moralista di Versailles che si sia educato su Dostoevskij e sulle taglienti discriminazioni dei testi buddhisti: la « nostalgia della servitù » e l'« euforia del la dannazione », il « delirio dei miserabili » e le « virtù esplosive dell'umiliazione », altrettante tappe di un grande viaggio che qui viene definito « l'odissea del rancore ». Ma c'è qualcosa di ancora più disperante della storia: la pretesa di uscirne con i mezzi forgiati dalla storia stessa, l'utopia. Se dissipiamo la loro cornice di Buone Intenzioni, le utopie sono inferni rosati, che non esercitano più neppure l'attrazione dell'orrido. E il loro difetto non è nella lontananza dalla realtà, ma nella capacità di anticiparci con notevole precisione un futuro di squallore. « I due generi, l'utopistico e l'apocalittico, che ci sembrano così dissimili, si fondono, stingono adesso l'uno nell'altro per formarne un terzo, meravigliosamente adatto a rispecchiare la sorta di realtà che ci minaccia e alla quale diremo tuttavia di sì, un sì corretto e senza illusioni. Sarà il nostro modo di essere irreprensibili davanti alla fatalità ».
A cura di Mario Andrea Rigoni.