IlI - ALLA SCUOLA DEI TIRANNI

 

 

 

Chi non ha conosciuto la tentazione di essere il primo nella comunità non capirà nulla del gioco politico, della volontà di assoggettare gli altri per farne degli oggetti, né intuirà gli elementi di cui si compone l'arte del disprezzo. Sono rari coloro che non hanno mai provato, in una misura qualsiasi, la sete di potenza: essa è conforme alla nostra natura e tuttavia, a considerarla bene, assume tutti i caratteri di una condizione morbosa, di cui guariamo soltanto per caso oppure per una maturazione interiore affine a quella che si produsse in Carlo V allorché, abdicando a Bruxelles all'apice della gloria, insegnò al mondo che l'eccesso di stanchezza poteva suscitare scene altrettanto ammirevoli dell'eccesso di coraggio. Ma, anomalia o meraviglia, la rinuncia, sfida alle nostre costanti, alla nostra identità, interviene soltanto in momenti eccezionali, caso limite che appaga il filosofo e confonde lo storico. Esaminatevi mentre l'ambizione vi tormenta, mentre ne subite la febbre; e analizzate poi attentamente i vostri «accessi». Constaterete che sono preceduti da sintomi curiosi, da uno speciale calore, che non mancherà di trascinarvi e di allarmarvi. Intossicati d'avvenire per abuso di speranza, vi sentite subito responsabili del presente e del futuro, nel cuore della durata, carica dei vostri brividi, e con la quale, agenti di un'anarchia universale, sognate di esplodere. Attenti agli avvenimenti del vostro cervello e alle vicissitudini del vostro sangue, volti verso il vostro squilibrio, ne spiate e amate i segni. Fonte di turbamenti, di malesseri senza pari, la follia politica, se sommerge l'intelligenza, favorisce in compenso gli istinti e vi sprofonda in un caos salutare. L'idea del bene e soprattutto del male che immaginate di poter compiere vi rallegrerà ed esalterà; e tale sarà la prova di forza, il prodigio delle vostre infermità, che esse vi renderanno padroni di tutti e di tutto.

Intorno a voi, noterete uno sconvolgimento analogo in coloro che sono rosi dalla stessa passione. Fintanto che ne subiranno il dominio, saranno irriconoscibili, preda di un'ebbrezza diversa da tutte le altre. In loro tutto cambierà, perfino il timbro della voce. L'ambizione è una droga che fa di colui che vi si dedica un demente in potenza. Chi non ha osservato in sé o negli altri queste stigmate, quest'aria di animale smarrito, questi tratti inquieti e come accesi da un'estasi sordida, rimarrà estraneo ai malefici e ai benefici del Potere, inferno tonificante, sintesi di veleno e di panacea.

Immaginate adesso il processo inverso: passata la febbre, eccovi disincantati, normali fino all'eccesso. Più nessuna ambizione, e dunque più nessun mezzo di essere qualcuno o qualche cosa; il nulla in persona, il vuoto incarnato: ghiandole e viscere chiaroveggenti, ossa disingannate, un corpo invaso dalla lucidità, puro per se stesso, fuori gioco, fuori tempo, sospeso a un io irrigidito in un sapere totale senza conoscenze. Dove ritrovare l'attimo fuggito? Chi ve lo ridarà? Dappertutto gente frenetica o stregata, una folla di anormali che la ragione ha abbandonato per rifugiarsi presso di voi, unici ad aver tutto capito, spettatori assoluti, smarriti fra stolti, restii per sempre alla farsa unanime. E dato che l'intervallo che vi separa dagli altri non cessa di ingrandirsi, vi viene da domandarvi se non avete per caso percepito una realtà nascosta a tutti. Rivelazione infima o capitale, il contenuto ve ne resterà oscuro. La sola cosa di cui siete certi è il vostro accesso a un equilibrio inaudito, promozione di uno spirito sottratto a ogni complicità con gli altri. Ingiustamente sensati, più ponderati di tutti i saggi, così vi scoprite... E se tuttavia assomigliate ai forsennati che vi circondano, avvertite che un'inezia ve ne distinguerà per sempre; questa sensazione o questa illusione fa sì che, se compite i loro stessi atti, voi non ci mettete però né la stessa alacrità né la stessa convinzione. Barare sarà per voi una questione d'onore, e l'unico modo di vincere i vostri « accessi » o di impedirne il ritorno. Se c'è voluta né più né meno che una rivelazione, o un disastro, ne dedurrete che coloro che non hanno attraversato una crisi simile sprofonderanno sempre più nelle stravaganze inerenti alla nostra razza.

Si è notata la simmetria? Per diventare uomini politici, vale a dire per avere la stoffa di un tiranno, occorre uno sconvolgimento mentale; per cessare di esserlo, se ne impone ugualmente un altro : non si tratterà, in fondo, di una metamorfosi del nostro delirio di grandezza? Passare dalla volontà di essere il primo nella comunità a quella di esservi l'ultimo, è come, attraverso un mutamento d'orgoglio, sostituire a una follia dinamica una follia statica, un genere insolito d'insania, altrettanto insolito della rinuncia che ne deriva e che, appartenendo all'ascesi piuttosto che alla politica, non rientra nel nostro discorso.

.

Dato che l'appetito di potenza si è sparpagliato da millenni in molteplici tirannidi, piccole e grandi, che hanno infierito qua e là, sembra ora giunto il momento in cui esso debba finalmente raccogliersi, concentrarsi, per culminare in una sola, espressione di questa sete che ha divorato e divora il globo, meta di tutti i nostri sogni di potere, coronamento delle nostre attese e delle nostre aberrazioni. Il gregge umano disperso sarà riunito sotto la guardia di un pastore spietato, sorta di mostro planetario dinanzi al quale le nazioni si prosterneranno, in uno stato di sgomento vicino all'estasi. Con l'universo in ginocchio, un capitolo importante della storia sarà concluso. Poi comincerà lo sgretolamento del nuovo regno, e il ritorno al disordine primitivo, alla vecchia anarchia; gli odii e i vizi soffocati risorgeranno e, con essi, i tiranni minori dei cicli passati. Dopo la grande schiavitù, la schiavitù qualunque. Ma, all'uscita da una servitù immane, i sopravvissuti saranno fieri della loro vergogna e della loro paura e, vittime fuori classe, ne celebreranno il ricordo.

Durer è il mio profeta. Più contemplo la sfilata dei secoli, e più mi persuado che l'unica immagine capace di rivelarne il senso è quella dei Cavalieri dell'Apocalisse. I tempi avanzano solo calpestando, schiacciando le folle; i deboli scompariranno, non meno dei forti, e anche questi cavalieri, meno uno. Per lui, per la sua terribile lama, hanno patito e urlato le età. Lo vedo crescere all'orizzonte, percepisco già i nostri gemiti, sento perfino le nostre grida. E la notte che scenderà nelle nostre ossa non vi apporterà la pace, come al Salmista, ma lo spavento.

A giudicarla dai tiranni che ha prodotto, la nostra epoca sarà stata tutto, tranne che mediocre. Per ritrovarne di simili bisogna risalire all'Impero romano o alle invasioni mongoliche. Molto più che a Stalin, è a Hitler che spetta il merito di aver dato il tono al secolo. Egli è importante, non tanto per se stesso quanto per quello che annuncia, abbozzo del nostro avvenire, araldo di un fosco avvento e di un'isteria cosmica, precursore di quel despota su scala continentale, che compirà l'unificazione del mondo attraverso la scienza, destinata non a liberarci, ma ad asservirci. Tutto questo, un tempo lo si sapeva; un giorno lo si saprà di nuovo. Siamo nati per esistere, non per conoscere; per essere, non per affermarci. Il sapere, avendo irritato e stimolato il nostro appetito di potenza, ci condurrà inesorabilmente alla rovina. La Genesi ha còlto la nostra condizione meglio di quanto non l'abbiano fatto i nostri sogni e i nostri sistemi.

Dovremo espiare con un supplemento di squilibrio ciò che abbiamo imparato da noi stessi, qualsiasi conoscenza estratta dalla nostra propria essenza. Frutto di un intimo disordine, di una malattia definita o diffusa, di una disfunzione alla radice della nostra esistenza, il sapere altera l'economia di un essere. Ciascuno deve pagare per la minima offesa recata a un universo creato per l'indifferenza e per la stasi; presto o tardi, ci si pentirà di non averlo lasciato intatto. Ciò vale per la conoscenza, ciò vale ancora di più per l'ambizione, perché usurpare i diritti altrui comporta delle conseguenze più gravi e più immediate che violare il mistero o semplicemente la materia. Si comincia col far tremare gli altri, ma gli altri finiscono col comunicarvi i loro terrori. Ecco perché anche i tiranni vivono nello spavento. Quello che conoscerà il nostro futuro padrone sarà certamente esaltato da una felicità sinistra, quale nessuno ha mai provato, su misura del solitario per eccellenza, ritto innanzi a tutta l'umanità e simile a un dio che troneggia nel terrore, in un panico onnipotente, senza inizio né fine, cumulando l'acrimonia di Prometeo e la tracotanza di Yahweh, scandalo per l'immaginazione e per il pensiero, sfida sia alla mitologia sia alla teologia.

Dopo i mostri accantonati in una città, un regno o un impero, è naturale che altri più potenti ne compaiano, per effetto di qualche disastro, della liquidazione delle nazioni e delle nostre libertà. Quadro nel quale realizziamo il contrario delle nostre aspirazioni, nel quale le sfiguriamo incessantemente, la storia non è sicuramente di essenza angelica. Quando la consideriamo, abbiamo un solo desiderio : promuovere l'acredine alla dignità di una gnosi.

.

Tutti gli uomini sono più o meno invidiosi; gli uomini politici lo sono in modo assoluto. Si diventa uno di loro soltanto in quanto non si sopporta nessuno accanto o sopra di sé. Lanciarsi in un'impresa, non importa quale, anche la più insignificante, vuol dire sacrificare all'invidia, prerogativa suprema dei vivi, legge e molla degli liti. Quando essa vi abbandona, non siete più che un insetto, un nulla, un'ombra. E un malato. Se invece vi sostiene, rimedia alle deficienze dell'orgoglio, veglia sui vostri interessi, trionfa sull'apatia, opera più di un miracolo. Non è forse strano che nessuna terapeutica e nessuna morale ne abbia predicato i benefici, quando, più caritatevole della provvidenza, essa precede i nostri passi per guidarli? Guai a chi la ignora, la trascura o vi si sottrae! Perché si sottrae contemporaneamente alle conseguenze del peccato originale, al bisogno di agire, di creare e di distruggere. Incapace di essere invidioso degli altri, che cosa farebbe tra di loro? Lo attende un destino di relitto. Per salvarlo, bisognerebbe costringerlo a modellarsi sui tiranni, a trarre profitto dai loro eccessi e dai loro misfatti. È da loro e non dai saggi, che imparerà come riprendere gusto alle cose, come vivere e come degradarsi. Se vorrà partecipare anche lui all'avvilimento generale, a questa euforia della dannazione in cui sono immerse le creature, dovrà risalire verso il peccato, reintegrare la caduta. Ci riuscirà? Niente di meno sicuro, giacché dei tiranni egli non imita che la solitudine. Compiangiamolo, abbiamo pietà di un miserabile che, non degnandosi di conservare i suoi vizi né di rivaleggiare con nessuno, resta al di qua di se stesso e al di sotto di tutti.

Se gli atti sono frutto dell'invidia, si capirà perché la lotta politica, nella sua espressione ultima, si riduce ai calcoli e alle manovre atti ad assicurare l'eliminazione dei nostri concorrenti o dei nostri nemici. Volete colpire giusto? Incominciate col liquidare tutti coloro che, pensando secondo le vostre categorie e i vostri pregiudizi e avendo percorso al vostro fianco la stessa strada, sognano necessariamente di soppiantarvi o di abbattervi. Sono i più pericolosi fra i vostri rivali; limitatevi a loro, gli altri possono aspettare. Se mi impadronissi del potere, la mia prima cura sarebbe quella di far sparire tutti i miei amici. Procedere diversamente significherebbe sciupare il proprio lavoro, screditare la tirannide. Hitler, competentissimo in materia, diede prova di saggezza sbarazzandosi di Roehm, l'unica persona cui desse del tu, e di un gran numero dei suoi primi compagni. Stalin, per parte sua, non fu certo da meno, come testimoniano i processi di Mosca.

Finché un conquistatore riesce, finché avanza, può permettersi qualsiasi misfatto; l'opinione pubblica lo assolve; non appena la fortuna lo abbandona, il minimo errore si volge contro di lui. Tutto dipende dal momento in cui si uccide: il crimine in piena gloria consolida l'autorità con la paura sacra che ispira. L'arte di farsi temere e rispettare equivale al senso dell'opportunità. Mussolini, il prototipo del despota maldestro o sfortunato, divenne crudele quando il suo crollo era ormai manifesto e il suo prestigio offuscato: alcuni mesi di vendette inopportune annullarono il lavoro di vent'anni. Napoleone fu ben altrimenti perspicace: se avesse fatto uccidere più tardi il duca d'Enghien, per esempio dopo la campagna di Russia, avrebbe lasciato il ricordo di un carnefice; invece quell'assassinio appare sulla sua memoria solamente come una macchia, e niente di più.

Se, al limite, si può anche governare senza delitti, non si può assolutamente governare senza ingiustizie. Si tratta tuttavia di saper dosare gli uni e le altre, di commetterli soltanto in un modo discontinuo. Perché ve li perdonino, dovete saper fìngere la collera o la follia, dare l'impressione di essere sanguinario per inavvertenza, perseguire calcoli spaventevoli sotto apparenze bonarie. Il potere assoluto non è cosa facile: vi si segnalano soltanto gli istrioni o gli assassini in formato grande. Non c'è nulla di più umanamente ammirevole e storicamente deplorevole che un tiranno demoralizzato dai propri scrupoli.

« E il popolo? », si dirà. Il pensatore o lo storico che adopera questa parola senza ironia si squalifica. Il « popolo », si sa fin troppo bene a che cosa è destinato : subire gli avvenimenti e le fantasie dei governanti, prestandosi a piani che lo indeboliscono e lo opprimono. Ogni esperienza politica, per quanto « avanzata » sia, si attua a sue spese, si dirige contro di lui: esso porta le stigmate della schiavitù per decreto divino o diabolico. Inutile impietosirsene : la sua causa è senza scampo. Nazioni e imperi si costituiscono grazie al suo compiacimento per le iniquità di cui è oggetto. Non c'è capo di Stato o conquistatore che non lo disprezzi; ma esso accetta questo disprezzo, e ne vive. Se cessasse di essere debole o vittima, se si sottraesse al suo destino, la società scomparirebbe e, con essa, la storia tout court. Ma non dobbiamo essere troppo ottimisti : nulla nel popolo permette di prospettare un'eventualità tanto bella. Così com'è, rappresenta un invito al dispotismo. Sopporta le sue prove, talvolta le sollecita, e non vi si ribella se non per correre verso nuove altre, più atroci delle precedenti. Dato che la rivoluzione è il suo unico lusso, vi si precipita, non tanto per trarne qualche beneficio o migliorare la propria sorte quanto per acquisire anch'esso il diritto di essere insolente, vantaggio che lo consola degli smacchi abituali, ma che perde non appena si aboliscono i privilegi del disordine. Poiché nessun regime assicura la sua salvezza, si adatta a tutti e a nessuno. E, dal Diluvio fino al Giudizio, tutto ciò cui può aspirare è di adempiere onestamente la sua missione di vinto.

Per tornare ai nostri amici, oltre alla ragione invocata per farli sparire, ce n'è un'altra: conoscono troppo i nostri limiti e i nostri difetti (l'amicizia si riduce a questo e niente di più) per conservare la minima illusione sui nostri meriti. Ostili, inoltre, alla nostra promozione al rango di idoli, alla quale l'opinione pubblica sarebbe invece ben disposta, preposti alla salvaguardia della nostra mediocrità, delle nostre dimensioni reali, essi sgonfiano il mito che ci piacerebbe creare sul nostro proprio conto, ci inchiodano alla nostra esatta figura, denunciano la falsa immagine che abbiamo di noi stessi. E quando ci dispensano qualche elogio, vi mettono tanti sottintesi e tante sottigliezze che la loro adulazione, a forza di circospezione, equivale a un insulto. Ciò che essi auspicano in seguito è il nostro cedimento, la nostra umiliazione e la nostra rovina. Assimilando il nostro successo a un'usurpazione, riservano tutta la loro lucidità all'esame dei nostri pensieri e dei nostri gesti per proclamarne il vuoto e non diventano clementi se noti quando incominciamo a discendere la china. Ed è così viva la loro premura dinanzi allo spettacolo del nostro crollo che ci amano allora realmente, s'inteneriscono sulle nostre miserie, friggono le loro per condividere le nostre e pascersene. Durante la nostra ascesa, ci scrutavano senza pietà, erano obiettivi; ora si possono permettere l'eleganza di vederci diversi da come siamo e perdonarci gli antichi successi, persuasi come sono che non ne avremo di nuovi. E tale è il debole per noi che spendono la maggior parte del loro tempo per occuparsi delle nostre anomalie ed estasiarsi alle nostre carenze. Il grande errore di Cesare fu di non diffidare dei suoi, di coloro che, osservandolo da vicino, non potevano ammettere che si richiamasse a un'ascendenza divina; essi rifiutavano di divinizzarlo; la folla accettava, ma la folla accetta tutto. Se si fosse sbarazzato di loro, Cesare avrebbe conosciuto, invece di una morte senza fasto, un'apoteosi prolungata, superba deliquescenza su misura di un vero dio. Nonostante la sua sagacia, egli aveva delle ingenuità, ignorava che i nostri intimi sono i peggiori nemici della nostra statua.

In una repubblica, paradiso della debolezza, l'uomo politico è un tirannello che si sottomette alle leggi; ma una forte personalità non le rispetta o, piuttosto, rispetta soltanto quelle di cui è autore. Esperta nell'inqualificabile, considera l'ultimatum come l'onore e il culmine della sua carriera. Essere in grado di inviarne uno, o parecchi, comporta sicuramente una voluttà rispetto alla quale tutte le altre sono soltanto vezzi. Non concepisco che si possa ambire alla direzione degli affari pubblici se non si aspira a questa provocazione senza pari, la più insolente che vi sia, e più esecrabile ancora dell'aggressione che solitamente la segue. « Di quanti ultimatum è colpevole? », dovrebbe essere la domanda da fare sul conto di un capo di Stato. Non ne ha nessuno al suo attivo? La storia lo disprezza, quella storia che si anima solo al capitolo dell'orribile, mentre si annoia a quello della tolleranza, del liberalismo, regime in cui i temperamenti intristiscono e i più virulenti hanno, nel caso migliore, l'aria di cospiratori edulcorati. Compiango chi non ha mai concepito un sogno di dominio smisurato né sentito in sé turbinare i tempi. L'epoca in cui Arimane era il mio principio e il mio dio, in cui, insaziato di barbarie, ascoltavo le orde dilagare in me e suscitarvi dolci catastrofi! Per quanto sia ora sprofondato nella modestia, conservo tuttavia un debole per i tiranni, che preferisco sempre ai redentori e ai profeti; li preferisco perché non si nascondono dietro formule, perché il loro prestigio è equivoco, la loro sete autodistruttrice, mentre gli altri, posseduti da una ambizione senza limiti, ne mascherano le mire sotto precetti ingannevoli, si distolgono dal cittadino per regnare sulle coscienze, per impadronirsene, insediarvisi, provocarvi devastazioni durevoli, senza incorrere nel biasimo, peraltro meritato, di indiscrezione o di sadismo. Rispetto al potere di un Buddha, di un Gesù o di un Maometto, che cosa vale quello dei conquistatori? Rinunciate all'idea di gloria, se non siete tentati di fondare una religione! Benché, nel settore, i posti siano tutti presi, e ben presi, gli uomini non si rassegnano così presto: che cosa sono i capi setta se non fondatori di religioni di secondo grado? Se si considera soliamo l'efficacia, un Calvino o un Lutero, per aver scatenato conflitti a tutt'oggi ancora irrisolti, mettono in ombra un Carlo V o un Filippo II. Il cesarismo spirituale è più raffinato e più ricco di sconvolgimenti che il cesarismo propriamente detto: se volete farvi un nome, affidatelo a una Chiesa piuttosto che a un impero. Avrete così dei neofiti infeudati alla vostra sorte o ai vostri capricci, fedeli che potrete salvare o maltrattare a vostro piacere.

Le guide di una setta non indietreggiano davanti a nulla, giacché anche i loro scrupoli fanno parte della loro tattica. Ma senza andare fino alle sètte, caso estremo, voler semplicemente istituire un ordine religioso è preferibile, sul piano dell'ambizione, al governare una città o assicurarsi conquiste con le armi. Insinuarsi negli animi, rendersi padroni dei loro segreti, spogliarli in qualche modo di se stessi, della loro unicità, togliere loro perfino il privilegio, considerato inviolabile, del « foro interiore » : quale tiranno, quale conquistatore ha mai puntato tanto in alto? La strategia religiosa sarà sempre più sottile, e più sospetta, della strategia politica. Si paragonino gli Esercizi spirituali, così maligni in quel loro stile distaccato, alla nuda franchezza del Principe, e si misurerà la distanza che separa le astuzie del confessionale da quelle di una cancelleria o di un trono.

Più l'appetito di potenza si esaspera nei capi spirituali, e più essi si dedicano, non senza ragione, a frenarlo negli altri. Chiunque di noi, lasciato a se stesso, occuperebbe lo spazio, l'aria stessa e se ne riterrebbe il proprietario. Una società che si volesse perfetta dovrebbe mettere di moda la camicia di forza o renderla obbligatoria. Perché l'uomo non si muove se non per fare il male. Le religioni, sforzandosi di guarirlo dell'ossessione del potere e di dare una direzione non politica alle sue aspirazioni, assomigliano ai regimi autoritari, poiché, al pari di questi, seppure con altri metodi, vogliono domarlo, fiaccare la sua natura, la sua megalomania innata. Ciò che ha consolidato il loro credito, ciò che ha consentito loro di vincere finora le nostre inclinazioni, intendo l'elemento ascetico, è proprio ciò che ha cessato di avere presa su di noi. Ne doveva derivare un pericoloso affrancamento; ingovernabili in tutti i sensi, pienamente emancipati, liberati dalle nostre catene e dalle nostre superstizioni, siamo maturi per i rimedi del terrore. Chi aspira alla libertà completa non vi giunge se non per tornare al proprio punto di partenza, al proprio asservimento iniziale. Da qui la vulnerabilità delle società evolute, masse amorfe, senza idoli né ideali, pericolosamente sprovviste di fanatismo, sfornite di legami organici, e talmente smarrite in mezzo ai loro capricci o alle loro convulsioni, che si augurano - ed è l'unico sogno di cui siano ancora capaci - la sicurezza e i dogmi del giogo. Inadatte ad assumere più a lungo la responsabilità del loro destino, esse cospirano, più ancora delle società rozze, all'avvento del dispotismo, affinché le liberi dalle ultime tracce di un appetito di potenza spossato, vuoto e inutilmente ossessivo.

Un mondo senza tiranni sarebbe altrettanto noioso di un giardino zoologico senza iene. Il padrone che aspettiamo nel terrore sarà precisamente un amante della putrefazione, in presenza del quale faremo tutti la figura delle carogne. Venga ad annusarci, ad avvoltolarsi nelle nostre esalazioni! Già un nuovo odore fluttua sull'universo.

.

Per non cedere alla tentazione politica, bisogna sorvegliarsi a ogni momento. Come riuscirci, particolarmente in un regime democratico, il cui vizio essenziale è di permettere al primo venuto di mirare al potere e di dare libero corso alle proprie ambizioni? Ne deriva un pullulare di fanfaroni, di cavillatori senza avvenire, pazzi qualunque che la fatalità rifiuta di segnare, incapaci della vera frenesia, inadatti sia al trionfo sia allo sfacelo. È tuttavia la loro nullità che permette e assicura le nostre libertà, minacciate dalle personalità d'eccezione. Una repubblica che si rispetti dovrebbe sgomentarsi alla comparsa di un grand'uomo, bandirlo dal proprio seno, o almeno impedire che si crei una leggenda intorno a lui. Le ripugna? Il fatto è che, abbagliata di quel flagello, non crede più né alle sue istituzioni né alle sue ragioni d'essere. Essa s'ingarbuglia nelle proprie leggi, e queste leggi, che proteggono il suo nemico, la dispongono e la conducono al cedimento. Soccombendo agli eccessi della propria tolleranza, risparmia l'avversario che non la risparmierà, autorizza i miti che la minano e la distruggono, si lascia catturare dagli allettamenti del suo carnefice. Merita forse di sopravvivere, quando i suoi stessi princìpi la invitano a scomparire? Paradosso tragico della libertà: i mediocri, che soli ne rendono possibile l'esercizio, non sono in grado di garantirne la durata. Dobbiamo tutto alla loro insignificanza e perdiamo tutto per causa sua. Così essi sono sempre al di sotto del loro compito. È questa mediocrità che odiavo al tempo in cui amavo senza riserve i tiranni, dei quali non si dirà mai abbastanza che hanno, al contrario della loro caricatura (ogni democratico è un tiranno da operetta), un destino, anzi troppo destino. E se votavo loro un culto, è perché, avendo l'istinto del comando, non si abbassano al dialogo né agli argomenti: ordinano, decretano, senza condiscendere a giustificare i loro atti; da qui il loro cinismo, che mettevo al di sopra di tutte le virtù e di tutti i vizi, segno di superiorità, anzi di nobiltà, che, ai miei occhi, li isolava dal resto dei mortali. Non potendo rendermi degno di loro col gesto, speravo di riuscirvi con la parola, con la pratica del sofisma e dell'enormità : essere coi mezzi dello spirito altrettanto odioso quanto loro con quelli del potere, devastare con la parola, far esplodere il verbo e il mondo con esso, scoppiare con l'uno e con l'altro, e sprofondarmi infine sotto i loro rottami! Ora, frustrato da queste stravaganze, da tutto ciò che esaltava i miei giorni, me ne sto a sognare una comunità, meraviglia di moderazione, diretta da un'équipe di ottuagenari un pochino rimbambiti, di un'amabilità macchinale, ancora abbastanza lucidi per fare buon uso delle loro decrepitezze, esenti da desideri, da rimpianti, da dubbi, e tanto solleciti dell'equilibrio generale e del bene pubblico da considerare perfino il sorriso come un segno di sregolatezza o di sovversione. E tale è attualmente il mio decadimento che gli stessi democratici mi sembrano troppo ambiziosi e troppo deliranti. Sarei nondimeno loro complice se il loro odio della tirannide fosse puro; ma essi l'aborrono soltanto perché li relega nella vita privata e li confina nel loro nulla. L'unico ordine di grandezza al quale essi possono giungere è quello del fallimento. Liquidare si addice loro, vi si compiacciono e, quando vi eccellono, meritano il nostro rispetto. In linea generale, per condurre uno Stato alla rovina occorrono un certo addestramento, disposizioni speciali, e anzi dell'ingegno. Ma può anche darsi che vi si prestino le circostanze; il compito è allora facile, come dimostra l'esempio dei Paesi in declino, sprovvisti di risorse interne, caduti in preda all'insolubile, alle lacerazioni, al gioco di opinioni e di tendenze contraddittorie. Tale fu il caso della Grecia antica. E poiché abbiamo parlato di fallimento, il suo fu perfetto: si direbbe che vi si sia impegnata per proporlo come modello, e per scoraggiare la posterità dal provarcisi. A partire dal III secolo avanti Cristo, con la sua sostanza vitale dilapidata, gli idoli vacillanti, la vita politica lacerata fra il partito macedone e il partito romano, essa dovette, per risolvere le sue crisi e per rimediare alla maledizione delle sue libertà, ricorrere al dominio straniero, accettare per più di cinquecento anni il giogo di Roma, spintavi dallo stesso grado di raffinatezza e di cancrena a cui era pervenuta. Col politeismo ridotto a un cumulo di favole, doveva perdere il suo genio religioso e, con esso, il suo genio politico, due realtà indissolubilmente legate: mettere in causa i propri dèi significa mettere in causa la comunità alla quale presiedono. La Grecia non potè sopravvivere a essi più di quanto Roma doveva sopravvivere ai propri. Per convincersi che aveva perduto, con l'istinto religioso, l'istinto politico, basta osservare le sue reazioni durante le guerre civili : sempre dalla parte sbagliata, alleandosi con Pompeo contro Cesare, con Bruto contro Ottaviano e Antonio, con Antonio contro Ottaviano, sposò regolarmente le cause perse, come se, nella continuità del fiasco, avesse trovato una garanzia di stabilità, il conforto e la comodità dell'irreparabile. Le nazioni stanche dei loro dèi o di cui gli dèi stessi sono stanchi, quanto più civili saranno, tanto più facilmente rischieranno di soccombere. Il cittadino si affina a spese delle istituzioni; cessando di crederci, egli non può più difenderle. Quando i Romani, a contatto coi Greci, finirono col dirozzarsi, e dunque con l'indebolirsi, i giorni della repubblica furono contati. Essi si rassegnarono alla dittatura, anzi forse la invocavano in segreto: non c'è Rubicone senza la complicità di una stanchezza collettiva.

Il principio di morte, inerente a tutti i regimi, si percepisce meglio nelle repubbliche che nelle dittature: le prime lo proclamano e lo mettono in mostra, le seconde lo dissimulano e lo negano. Ciò non toglie che queste ultime, grazie ai loro metodi, riescano ad assicurarsi una durata più lunga e soprattutto più ricca: esse sollecitano, coltivano l'avvenimento, mentre le repubbliche ne fanno a meno volentieri, dato che la libertà è una condizione di assenza, assenza suscettibile di... degenerare quando i cittadini, esauriti dalla fatica di essere se stessi, non aspirano più ad altro che a umiliarsi e a cedere, a soddisfare la loro nostalgia della servitù. Nulla di più affliggente dell'estenuazione e dello sfacelo di una repubblica: bisognerebbe parlarne nel tono dell'elegia o dell'epigramma o. ancor meglio, in quello dell'Esprit des lois: «Quando Silla volle restituire a Roma la libertà, essa non potè più accoglierla; non aveva più che una debole traccia di virtù; e, poiché ne ebbe sempre meno, invece di risvegliarsi dopo Cesare, Tiberio, Caio, Claudio, Nerone, Domiziano, fu sempre più schiava: tutti i colpi mirarono ai tiranni, nessuno alla tirannide ». Il fatto è che alla tirannide per l'appunto si può prendere gusto: capita infatti che l'uomo preferisca stagnare nella paura piuttosto che affrontare l'angoscia di essere se stesso. Allorché il fenomeno si generalizza, compaiono i cesari: come incriminarli, quando rispondono alle esigenze della nostra miseria e alle implorazioni della nostra codardia? Essi meritano anzi l'ammirazione: corrono verso l'assassinio, vi pensano ininterrottamente, ne accettano l'orrore e l'ignominia, e vi consacrano i loro pensieri al punto da dimenticare il suicidio e l'esilio, formule meno spettacolari, ma più dolci e più gradevoli. Avendo optato per il più difficile, non possono prosperare se non in tempi incerti, per mantenervi il caos o per soffocarlo. L'epoca propizia alla loro crescita coincide con la fine di un ciclo di civiltà. Ciò è evidente per il mondo antico, ciò lo sarà non meno per il mondo moderno, che va diritto verso una tirannide ben più notevole di quella che infieriva nei primi secoli della nostra èra. La meditazione più elementare sul processo storico di cui noi siamo il risultato rivela che il cesarismo sarà il modo secondo cui si compirà il sacrificio delle nostre libertà. Se i continenti devono essere saldati, unificati, vi provvederà la forza e non la persuasione; come l'Impero romano, l'impero futuro sarà forgiato con la guerra e si stabilirà col concorso di noi tutti, poiché i nostri stessi terrori lo reclamano. Se mi si obiettasse che divago, risponderei che è possibile in effetti che io anticipi frettolosamente. Le date non contano molto. I primi cristiani aspettavano la fine del mondo da un momento all'altro; si sono sbagliati soltanto di qualche millennio... In un tutt'altro ordine di aspettativa, anch'io posso sbagliarmi; ma, alla fine, non si soppesa o si dimostra una visione: quella che io ho della tirannide futura mi s'impone con un'evidenza così decisiva che mi parrebbe disonorante volerne dimostrare la fondatezza. È una certezza che partecipa insieme del brivido e dell'assioma. Io vi aderisco con l'impeto di un convulsionario e con la sicurezza di un matematico. No, non divago né sbaglio. E non potrei nemmeno dire, con Keats, che « il sentimento dell'ombra m'invade ». Piuttosto mi assale una luce, precisa e intollerabile, che mi fa intravedere non già la fine del mondo, che sarebbe divagare, ma quella di uno stile di civiltà e di un modo di essere. Per limitarmi all'immediato, e più particolarmente all'Europa, mi appare, con un'estrema chiarezza, che la sua unità non si realizzerà, come alcuni pensano, per accordo e deliberazione, ma con la violenza, secondo le leggi che regolano la formazione degli imperi. Perché queste vecchie nazioni, impegolate nelle loro gelosie e ossessioni provinciali vi rinuncino e se ne liberino, occorrerà che una mano di ferro ve le costringa, altrimenti non acconsentiranno mai di propria volontà. Una volta asservite, accomunate nell'umiliazione e nella disfatta, potranno dedicarsi a un'opera sovrannazionale, sotto l'occhio vigile e sogghignante del nuovo padrone. La loro servitù sarà brillante, la cureranno con premura e delicatezza, non senza impiegarvi gli ultimi residui del loro genio. Esse pagheranno caro lo splendore della propria schiavitù.

Così l'Europa, anticipando i tempi, sarà come sempre di esempio al mondo e si illustrerà nella sua parte di protagonista e di vittima. La sua missione è consistita nel prefigurare le prove degli altri, nel soffrire per essi e prima di essi, nell'offrire loro le proprie convulsioni come modello, affinché gli altri siano dispensati dall'inventarne altre di originali, di personali. Più essa si consumava per loro, più si tormentava e si agitava, e meglio essi vivevano da parassiti delle sue ansie e da eredi delle sue rivolte. Anche in avvenire, essi si volgeranno verso l'Europa, fino al giorno in cui, esausta, non potrà più lasciar loro in eredità altro che rifiuti.