Tutti i Paesi, mi capita talvolta di pensare, dovrebbero assomigliare alla Svizzera, compiacersi e accasciarsi nell'igiene, nella scipitezza, nell'idolatria delle leggi e nel culto dell'uomo; ma, per mi altro verso, mi attirano soltanto le nazioni indenni da scrupoli nel pensare e nell'agire, febbrili e insaziabili, sempre pronte a divorare le altre e se stesse, calpestando i valori contrari alla loro ascesa e alla loro riuscita, restie alla saggezza, questa piaga dei vecchi popoli, stanchi di se stessi e di tutto, e come felici di sapere di muffa. Allo stesso modo, ho un bel vomitare sui tiranni; nondimeno devo constatare che fanno la trama della storia e che senza di loro non si potrebbe concepire né l'idea né il cammino di un impero. Supremamente odiosi, di una bestialità ispirata, essi evocano l'uomo spinto ai suoi estremi, all'ultima esasperazione delle sue turpitudini e dei suoi meriti. Ivan il Terribile, per non citare che il più affascinante fra di loro, esaurisce gli angoli e i recessi della psicologia. Altrettanto complesso nella sua demenza quanto nella sua politica, fece del suo regno e, fino a un cerio punto, del suo Paese, un modello di incubo, nn prototipo d'allucinazione vivente e inesauribile. Miscuglio di Mongolia e di Bisanzio, che cumulava le qualità e i difetti di un khan e di un basileus, mostro dalle collere demoniache e dalla sordida malinconia, diviso fra il gusto del sangue e quello del pentimento, di una giovialità arricchita e coronata di ghigni, egli aveva la passione del crimine; l'abbiamo anche noi tutti finché esistiamo: attentato contro gli altri o contro noi stessi. Soltanto che in noi essa resta inappagata, di modo che le nostre opere, quali che siano, derivano dalla nostra incapacità di uccidere o di ucciderci. Non sempre ne conveniamo, misconosciamo volentieri l'intimo meccanismo delle nostre infermità. Se gli zar o gli imperatori romani mi ossessionano, è perché queste infermità, velate in noi, vengono in loro allo scoperto. Essi ci rivelano a noi stessi, incarnano e illustrano i nostri segreti. Penso a quelli fra loro che, votati a una grandiosa degenerazione, si accanivano contro i loro parenti e, per timore di esserne amati, li mandavano al supplizio. Per quanto potenti fossero, erano tuttavia infelici, perché insaziati del tremore degli altri. Non sono forse come la proiezione del cattivo genio che ci abita e ci persuade che l'ideale sarebbe di fare il vuoto intorno a noi? È con tali pensieri e tali istinti che si forma un impero: vi coopera quel sottofondo della coscienza, in cui si celano le nostre tare più care.
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Scaturita da profondità quasi insospettabili, per una spinta originaria, l'ambizione di dominare il mondo appare soltanto in certi individui e in certe epoche, senza rapporto diretto con la qualità della nazione in cui si manifesta: fra Napoleone e Gengis Khan c'è minore differenza che tra il primo e un qualunque uomo politico francese delle repubbliche successive. Ma queste profondità, come quella spinta, si possono inaridire, esaurire.
Carlo Magno, Federico II di Hohenstaufen, Carlo V, Bonaparte, Hitler furono tentati, ciascuno i modo proprio, di realizzare l'idea dell'impero universale: vi fallirono, con più o meno fortuna. L'Occidente, dove quest'idea non suscita ormai che ironia o disagio, vive nella vergogna delle sue conquiste; ma è, curiosamente, nel momento stesso in cui si ripiega su di sé, che le sue formule trionfano e si diffondono; dirette contro il suo potere e contro la sua supremazia, esse trovano un'eco fuori dei suoi confini. L'Occidente vince perdendosi. Così la Grecia prevalse, nel campo dello spirito, soltanto quando cessò di essere una potenza e perfino una nazione; si saccheggiarono la sua filosofia e le sue arti, si assicurò una fortuna alle sue opere, senza che però si potessero assimilare le sue doti; allo stesso modo, si prende e si prenderà tutto all'Occidente, salvo il suo genio. Una civiltà si rivela feconda per la facoltà che essa ha di incitare gli altri a imitarla; se cessa di sedurli, si riduce a un cumulo di frammenti e di vestigia.
Abbandonando quest'angolo del mondo, l'idea imperiale doveva trovare un clima provvidenziale in Russia, dove per altro essa era sempre esistita, soprattutto sul piano spirituale. Dopo la caduta di Bisanzio, Mosca divenne, per la coscienza ortodossa, la terza Roma, l'erede del « vero » cristianesimo, dell'autentica fede. Primo risveglio messianico. Per conoscere il secondo, la Russia dovette attendere i nostri giorni; ma, questa volta, il risveglio lo deve all'abdicazione dell'Occidente. Nel Quattrocento, approfittò di un vuoto religioso, come approfitta, oggi, di un vuoto politico. Due eccellenti occasioni per compenetrarsi delle sue responsabilità storiche. Quando Maometto II cinse d'assedio Costantinopoli, la cristianità, divisa come sempre e, per di più, felice di aver perduto il ricordo delle crociate, si astenne dall'intervenire. Gli assediati provarono dapprima un'irritazione che, di fronte alla certezza del disastro, si mutò in stupore. Oscillando tra il panico e una soddisfazione segreta, il Papa promise soccorsi, ma li inviò troppo tardi : a che prò affrettarsi per degli « scismatici »? Intanto lo « scisma » stava guadagnando in forza altrove. Roma preferì Mosca a Bisanzio? Si preferisce sempre un nemico lontano a un nemico vicino. Analogamente, ai nostri giorni, gli angloamericani dovevano preferire, in Europa, la preponderanza russa a quella tedesca. Il fatto è che la Germania era troppo vicina.
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Le pretese della Russia di passare dal primato indefinito all'egemonia vera e propria non mancano di fondamento. Che cosa ne sarebbe stato del mondo occidentale, se essa non avesse arrestato e assorbito l'invasione mongola? Per oltre due secoli di umiliazioni e di servitù, la Russia fu esclusa dalla storia, mentre le nazioni occidentali si concedevano il lusso di dilaniarsi a vicenda. Se essa fosse stata in grado di svilupparsi senza ostacoli, sarebbe diventata una potenza di prim'ordine fin dall'inizio dell'epoca moderna; ciò che è ora, lo sarebbe stato fin dal Cinquecento o dal Seicento. E l'Occidente? Forse oggi sarebbe ortodosso e, a Roma, invece della Santa Sede, potrebbe bearsi il Santo Sinodo. Ma i russi possono rifarsi. Se sarà loro consentito, come tutto lascia presagire, di portare a termine i loro piani, non è escluso che regolino i conti col Sommo Pontefice. O in nome del marxismo o in quello dell'ortodossia, essi sono chiamati a distruggere l'autorità e il prestigio della Chiesa, di cui non potrebbero tollerare le mire senza rinunciare al punto essenziale della loro missione c del loro programma. Sotto gli zar, assimilandola a uno strumento dell'Anticristo, innalzavano preghiere contro di essa; ora, considerandola una l'autrice satanica della Reazione, la tempestano di invettive un po' più efficaci dei vecchi anatemi; presto la sommergeranno con tutto il loro peso, con tutta la loro forza. Non è affatto impossibile che il nostro secolo debba contare, fra le sue curiosità, e a mo' di frivola apocalisse, la sparizione dell'ultimo successore di San Pietro.
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Divinizzando la Storia per screditare Dio, il marxismo è riuscito soltanto a rendere Dio più strano e più ossessionante. Tutto si può soffocare nell'uomo, salvo il bisogno di assoluto, che sopravvivrebbe alla distruzione dei templi e perfino alla scomparsa della religione sulla terra. Dato che il fondo del popolo russo è religioso, finirà inevitabilmente col prendere il sopravvento. Ragioni d'ordine storico vi contribuiranno in larga parte.
Adottando l'ortodossia, la Russia manifestava il suo desiderio di separarsi dall'Occidente; fu il suo modo di definirsi sin dal principio. Mai, al di fuori degli ambienti aristocratici, essa si lasciò sedurre dai missionari cattolici, nella fattispecie dai gesuiti. Uno scisma non esprime tanto divergenze di dottrina quanto una volontà di affermazione etnica; in esso traspare meno una controversia astratta che un riflesso nazionale. Non fu certo la ridicola disputa sul filioque che separò le Chiese: Bisanzio voleva un'autonomia totale; a maggior ragione, Mosca. Scismi ed eresie sono nazionalismi camuffati. Ma mentre la Riforma prese soltanto l'aspetto di una lite in famiglia, di uno scandalo in seno all'Occidente, il particolarismo ortodosso, simulando un carattere più profondo, doveva segnare un distacco dal mondo occidentale stesso. Rifiutando il cattolicesimo, la Russia ritardava la propria evoluzione, perdeva un'occasione capitale di incivilirsi rapidamente, pur guadagnando in sostanza e in unicità; il suo ristagno la rendeva diversa, la faceva altra; è ciò a cui aspirava, presentendo senza dubbio che l'Occidente avrebbe un giorno rimpianto di averla sorpassata.
Più la Russia diventerà forte, e più prenderà coscienza delle sue radici, dalle quali, in un certo modo, il marxismo l'avrà allontanata; dopo una cura forzata di universalismo, essa si russificherà di nuovo, a vantaggio dell'ortodossia. D'altronde, essa ha segnato di una tale impronta il marxismo che l'avrà già slavizzato. Ogni popolo di una certa levatura che adotta un'ideologia estranea alle proprie tradizioni l'assimila e la snatura, la piega nel senso del suo destino nazionale, la falsa a proprio vantaggio, al punto da renderla indistinguibile dal proprio genio. Esso possiede una sua ottica, necessariamente deformante, un difetto di visuale che, lungi dallo sconcertarlo, lo lusinga e lo stimola. Le verità che fa valere, pur sprovviste di valore obiettivo, non sono per quelli meno vive e producono, come tali, quel genere di errori che costituiscono la diversità del paesaggio storico, restando bene inteso che lo storico, scettico per professione, temperamento e opzione, si colloca immediatamente al di fuori della Verità.
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Mentre i popoli occidentali si logoravano nella loro lotta per la libertà e, ancor più, nella libertà acquisita (niente esaurisce tanto quanto il possesso o l'abuso della libertà), il popolo russo soffriva senza consumarsi, giacché non ci si consuma se non nella storia, e poiché esso ne fu escluso, dovette necessariamente subire gli infallibili sistemi di dispotismo che gli furono inflitti : esistenza oscura, vegetativa, che gli consentì di rassodarsi, di accrescere la propria energia, di accumulare riserve, e di trarre dalla sua servitù il massimo profitto biologico. L'ortodossia lo ha aiutato in ciò, ma fu quella popolare, meravigliosamente articolata per tenerlo fuori dagli avvenimenti, al contrario di quella ufficiale, che orientava invece il potere verso mire imperialistiche. Doppia faccia della Chiesa ortodossa: da una parte, si adoperava per l'assopimento delle masse; dall'altra, come ausiliaria degli zar, ne risvegliava le ambizioni, e rendeva possibili conquiste immense, in nome di una popolazione passiva. Felice passività che ha assicurato ai russi il predominio attuale, frutto del loro ritardo storico. Favorevoli od ostili, tutte le iniziative dell'Europa ruotano intorno a loro. Dato che l'Europa li mette al centro dei suoi interessi e delle sue ansie, riconosce che i russi virtualmente la dominano. Ecco quasi realizzato uno dei loro sogni più antichi. Che vi siano pervenuti sotto gli auspici di un'ideologia di provenienza straniera, aggiunge qualche cosa di paradossale e di piccante al loro successo. Quello che importa, in definitiva, è che il regime sia russo e completamente fedele alle tradizioni del Paese. Non è forse significativo che la Rivoluzione, generata in linea diretta da teorie occidentaliste, si sia orientata sempre più verso le idee degli slavofili? D'altra parte, un popolo rappresenta una somma non tanto di idee e di teorie quanto di ossessioni: quelle dei russi, di qualunque partito siano, sono sempre, se non identiche, almeno imparentate. Un Caadaev, che non trovava nessun merito nella sua nazione, o un Gogol', che la scherniva senza pietà, vi erano altrettanto legati di un Dostoevskij. Il più forsennato dei nichilisti, Necaev, ne era ossessionato quanto Pobedonoscev, procuratore del Santo Sinodo, reazionario fino al midollo. Soltanto questa ossessione conta. Il resto non è che posa.
Perché la Russia si adattasse a un regime liberale, bisognerebbe che s'indebolisse notevolmente, che il suo vigore si estenuasse, anzi: che perdesse il suo carattere specifico e si snazionalizzasse in profondità. Come potrebbe riuscirci, con le sue risorse interne ancora intatte e i suoi mille anni di autocrazia? Supponendo che vi arrivasse d'un balzo, si sgretolerebbe immediatamente. Molte nazioni, per conservarsi ed espandersi, hanno bisogno di una certa dose di terrore. La I rancia stessa si è potuta impegnare nella democrazia soltanto nel momento in cui le sue molle hanno incominciato a rilassarsi ed essa, non mirando più all'egemonia, si apprestava a diventare rispettabile e saggia. Il primo Impero fu la sua ultima follia. Dopo di che, apertasi alla libertà, doveva prenderne faticosamente l'abitudine, attraverso molte convulsioni, contrariamente all'Inghilterra, la quale, esempio sconcertante, vi si era assuefatta da lungo tempo, senza urti né pericoli, grazie al conformismo e all'illuminata stupidità dei suoi abitanti (l'Inghilterra non ha mai prodotto, che io sappia, un solo anarchico).
Il tempo favorisce alla lunga le nazioni incatenate che, ammassando forze e illusioni, vivono nel futuro, nella speranza; ma che cosa si può ancora sperare nella libertà, o nel regime di dissipazione, di calma e di rammollimento che la incarna? Meraviglia che non ha nulla da offrire, la democrazia è insieme il paradiso e la tomba di un popolo. Solo grazie a essa la vita ha senso; ma essa manca di vita... Felicità immediata, disastro imminente — inconsistenza di un regime al quale non si aderisce senza intrappolarsi in un dilemma torturante.
Meglio dotata e ben più fortunata, la Russia non ha da porsi simili problemi, dato che il potere assoluto è per essa, come già osservava Karamzin, «il fondamento stesso del suo essere». Aspirare sempre alla libertà senza mai raggiungerla, non è forse questa la sua grande superiorità sul mondo occidentale, il quale, ahimè!, vi è da tempo pervenuto? Essa, inoltre, non si vergogna affatto del suo impero; al contrario, non pensa che a estenderlo. E chi, meglio della Russia, si è affrettato a beneficiare delle acquisizioni degli altri popoli? L'opera di Pietro il Grande e quella della stessa Rivoluzione hanno il carattere di un geniale parassitismo. E perfino gli orrori del giogo tartaro li ha sopportati ingegnosamente.
Se, pur confinandosi in un isolamento calcolato, ha saputo imitare l'Occidente, ha saputo ancor meglio farsene ammirare e sedurne gli animi. Gli enciclopedisti si infatuarono delle imprese di Pietro e di Caterina, proprio come gli eredi del secolo dei lumi, voglio dire gli uomini della sinistra, si infatueranno di quelle di Lenin e di Stalin. Questo fenomeno depone in favore della Russia ma non degli occidentali i quali, complicati e devastati quanto possibile, cercano il « progresso » altrove, fuori di se stessi e delle loro creazioni, e si trovano oggi paradossalmente più vicini ai personaggi dostoevskiani di quanto non lo siano i russi. Ed è inoltre opportuno precisare che essi non evocano che i lati deboli di questi personaggi, senza averne i capricci feroci né la collera virile: «demoni» debilitati a furia di raziocinazioni e di scrupoli, rosi da sottili rimorsi, da mille interrogativi, martiri del dubbio, abbagliati e annientati dalle proprie perplessità.
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Ogni civiltà crede che il suo modo di vivere sia il solo buono e il solo concepibile, che debba convertire il mondo a esso oppure infliggerglielo; questo modo di vivere equivale per essa a una soteriologia esplicita o camuffata; in realtà, a un imperialismo elegante, che però cessa di esserlo non appena si accompagna all'avventura militare. Non si fonda un impero soltanto per capriccio. Si assoggettano gli altri, perché vi imitino, perché si modellino su di voi, sulle vostre credenze e sulle vostre abitudini; subentra in seguito l'imperativo perverso di farne degli schiavi per contemplarvi l'abbozzo lusinghiero o caricaturale di se stessi. Che ci sia una gerarchia qualitativa degli imperi, sono d'accordo: i Mongoli e i Romani non soggiogarono i popoli per le stesse ragioni e le loro conquiste non ebbero il medesimo risultato. Ciò non toglie che gli uni e gli altri fossero ugualmente esperti nel far perire l'avversario riducendolo alla loro immagine.
Che le abbia provocate o subite, la Russia non si è mai accontentata di sventure mediocri. E cosi sarà anche in avvenire. Essa si schiaccerà sull'Europa per fatalità fisica, per l'automatismo della sua massa, per la sua vitalità sovrabbondante e morbosa così propizia alla generazione di mi impero (in cui si materializza sempre la megalomania di una nazione), per quella sua salute, piena di imprevisti, di orrore e di enigmi, posta al servizio di un'idea messianica, rudimento e prefigurazione di conquiste. Quando gli slavofili sostenevano che la Russia doveva salvare il mondo, adoperavano un eufemismo: non si salva il mondo senza dominarlo. Per quanto riguarda una nazione, essa trova il suo principio di vita o in se stessa o da nessuna parte: come potrebbe essere salvata da un'altra? La Russia pensa sempre - secolarizzando sia il linguaggio sia la concezione degli slavofili - che le spetti il compito di assicurare la salvezza del mondo, quella dell'Occidente in primo luogo, verso il quale, del resto, essa non ha mai provato un sentimento chiaro, ma attrazione e repulsione, gelosia (miscuglio di culto segreto e di avversione palese) ispirata dallo spettacolo d'un marciume, desiderabile quanto pericoloso, il cui contatto è da cercare, ma ancor più da fuggire.
Restio a definirsi e ad accettare limiti, coltivando l'equivoco in politica e in morale e, ciò che è più grave, in geografia, senza nessuna delle ingenuità inerenti agli « inciviliti » resi opachi al reale dagli eccessi di una tradizione razionalistica, il russo, sottile sia per intuizione sia per la secolare esperienza della dissimulazione, è forse un bambino storicamente, ma in nessun caso psicologicamente; da qui la sua complessità di uomo dagli istinti giovani e dai vecchi segreti, da qui parimenti le contraddizioni, spinte fino al grottesco, dei suoi atteggiamenti. Quando ha la pretesa di essere profondo (e ci arriva senza sforzo), deforma il minimo fatto, la minima idea. Si direbbe che abbia la mania della smorfia monumentale. Tutto è vertiginoso, spaventevole e inafferrabile nella storia delle sue idee, rivoluzionarie o d'altro genere. Egli è ancora un amatore incorreggibile di utopie; ora, l'utopia è il grottesco in rosa, il bisogno di associare la felicità, dunque l'inverosimile, al divenire, e di spingere una visione ottimista, aerea, fino al punto in cui raggiunge il proprio punto di partenza : il cinismo, che voleva combattere. Insomma, una fiaba mostruosa.
Che la Russia sia in grado di realizzare il suo sogno di un impero universale è un'eventualità, ma non una certezza; è evidente, in compenso, che potrebbe conquistare e annettersi tutta l'Europa, e anzi che lo farà, non fosse che per rassicurare il resto del mondo... Essa si accontenta di cosi poco! Dove trovare una prova più convincente di modestia, di moderazione? Un pezzo di continente! Intanto, lo contempla con lo stesso occhio con cui i Mongoli guardavano la Cina e i Turchi Bisanzio, con la differenza, tuttavia, che essa ha già assimilato un gran numero di valori occidentali, mentre le orde tartare e ottomane non avevano, rispetto alla loro preda futura, che mia superiorità tutta materiale. È senz'altro un peccato che la Russia non sia passata attraverso il Rinascimento: tutte le sue disuguaglianze derivano da qui. Ma, con la sua capacità di bruciare le tappe, sarà fra un secolo, e forse meno, unto raffinata e tanto vulnerabile quanto questo Occidente, giunto a un livello di civiltà che non si supera se non discendendo. Suprema ambizione della storia: registrare le variazioni di questo livello. Quello della Russia, inferiore al livello dell'Europa, non può che elevarsi, e la Russia con esso: quanto a dire che la Russia è condannata all'ascesa. Tuttavia, a furia di salire, non rischia, sbrigliata com'è, di perdere il suo equilibrio, di esplodere e di rovinarsi? Con le sue anime foggiate nelle sètte e nelle steppe, essa dà una singolare impressione di spazio e di chiuso, d'immensità e di soffocamento, di Nord insomma, ma di un Nord speciale, irriducibile alle nostre analisi, segnato da un sonno e da una speranza che fanno fremere, da una notte ricca di esplosioni, da un'aurora di cui ci si ricorderà. Nulla della trasparenza e della gratuità mediterranee in questi iperborei il cui passato, come il presente, sembra appartenere a una durata diversa dalla nostra. Davanti alla fragilità e alla fama dell'Occidente, essi provano un certo disagio, conseguenza del loro risveglio tardivo e del loro vigore inutilizzato: è il complesso di inferiorità del forte... Essi vi sfuggiranno, lo supereranno. L'unico punto luminoso nel nostro avvenire è la loro nostalgia, segreta e contratta, di un mondo delicato, dal fascino dissolvente. Se vi accederanno (questo appare con evidenza il senso del loro destino), si inciviliranno a svantaggio dei propri istinti e, lieta prospettiva, conosceranno anch'essi il virus della libertà.
Più un impero si umanizza, e più vi si sviluppano le contraddizioni per le quali perirà. Di aspetto composito, di struttura eterogenea (al contrario d'una nazione, realtà organica), esso ha bisogno, per sussistere, del principio coesivo del terrore. Si aprirà alla tolleranza? Questa ne distruggerà l'unità e la forza, e agirà su di esso come un veleno mortale che l'impero si sarà somministrato da sé. Il fatto è che la tolleranza non è soltanto lo pseudonimo della libertà, ma anche dello spirito; e lo spirito, nefasto per gli imperi ancora più che per gli individui, li corrode, ne compromette la solidità e ne accelera lo sgretolamento. Perciò, esso è lo strumento stesso di cui si serve, per colpirli, una provvidenza ironica. Se, nonostante l'arbitrarietà del tentativo, ci si divertisse a stabilire in Europa delle zone di vitalità, si constaterebbe che più ci si avvicina all'Est, e più si rivela l'istinto, che decresce invece a mano a mano che si procede verso Ovest.
I russi sono lungi dall'averne l'esclusiva, benché le nazioni che lo possiedono appartengano anch'esse, in diversa misura, alla sfera di influenza sovietica. Queste nazioni hanno tutt'altro che licito la loro ultima parola; alcune, come la Polonia o l'Ungheria, hanno svolto un ruolo non trascurabile nella storia; altre, come la Jugoslavia, la Bulgaria e la Romania, essendo vissute nell'ombra, hanno conosciuto solamente sussulti senza seguito. Ma quale che sia stato il loro passato, e indipendentemente dal loro livello di civiltà, dispongono tutte di un fondo biologico che si cercherebbe invano in Occidente. Maltrattate, diseredate, precipitate in un martirio anonimo, lacerate fra lo smarrimento e la sedizione, esse conosceranno forse in avvenire un compenso a tante prove, umiliazioni, e anche a tante viltà. Il grado di istinto non si valuta dall'esterno; per misurarne l'intensità bisogna aver praticato o intuito queste regioni, le sole al mondo a puntare ancora, nella loro bella cecità, sui destini dell'Occidente. Immaginiamo adesso il nostro continente incorporato all'impero russo, immaginiamo poi quest'impero, troppo vasto, indebolirsi e disgregarsi, con l'emancipazione dei popoli come corollario: quali di loro prenderebbero il sopravvento, recando all'Europa quel supplemento di impazienza e di forza, senza il quale un torpore irrimediabile l'attende? Io non potrei dubitarne: sono i popoli che ho appena menzionato. Con la reputazione di cui godono, la mia affermazione sembrerà ridicola. Passi per l'Europa centrale, mi si dirà. Ma i balcanici? Io non voglio difenderli, ma neanche voglio tacere i loro meriti. Quel gusto della devastazione, del disordine interno, di un universo simile a un bordello in fiamme, quella prospettiva sardonica su cataclismi avvenuti o imminenti, quell'asprezza, quel far niente da insonne o da assassino, non è dunque nulla questa eredità così ricca e pesante, questo lascito di cui beneficiano coloro che ne provengono e che, colpiti da un'« anima », dimostrano con ciò stesso di conservare un residuo di barbarie? Insolenti e desolati, essi vorrebbero rotolarsi nella gloria, il cui appetito è inseparabile dalla volontà di affermarsi e di precipitare, dalla tendenza a un crepuscolo rapido. Se le loro parole sono virulente, i loro accenti inumani e talvolta ignobili, è che mille ragioni li spingono a urlare più forte di questi inciviliti che hanno esaurito le loro grida. Unici « primitivi » in Europa, le daranno forse un impulso nuovo; è ciò che essa non mancherà di considerare come la sua ultima umiliazione. E tuttavia, se il Sud-Est non fosse che orrore, perché, quando lo si lascia e ci si avvia verso quest'altra parte del mondo, si prova come il senso di una caduta - meravigliosa, è vero - nel vuoto?
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La vita in profondità, l'esistenza segreta, quella di popoli che, avendo l'enorme vantaggio di essere stati finora respinti dalla storia, hanno potuto capitalizzare sogni, quest'esistenza sepolta, promessa alle sventure di una resurrezione, comincia oltre Vienna, estremità geografica del cedimento occidentale. L'Austria, il cui logoramento sfiora il simbolo o il comico, prefigura la sorte della Germania. Più nessuno smarrimento in grande stile nei tedeschi, più nessuna missione o frenesia, più nulla che li renda interessanti od odiosi! Barbari predestinati, distrussero l'Impero romano perché potesse nascere l'Europa; la fecero e spettava loro disfarla; vacillando coi tedeschi, essa subisce il contraccolpo del loro esaurimento. Per quanto dinamismo posseggano ancora, essi non hanno più ciò che si nasconde dietro ogni energia, o ciò che la giustifica. Votati all' insignificanza, elvetici in erba, per sempre fuori della loro abituale dismisura, ridotti a rimuginare le loro virtù degradate e i loro vizi rimpiccioliti, con l'unica speranza di poter essere una tribù qualunque, sono indegni del timore che possono ancora ispirare: credere in essi o temerli, è far loro un onore che non meritano.
Il loro fallimento è stato la provvidenza della Russia. Se fossero riusciti, essa sarebbe stata tenuta lontana, per almeno un secolo, dalle sue grandi mire. Ma non potevano riuscire, perché i aggiunsero l'apice della potenza materiale nel momento in cui non avevano più nulla da proporci, in cui erano forti e vuoti. Era già suonata l'ora per gli altri. « Gli slavi non sono forse gli antichi Germani in rapporto al mondo che se ne va? », si chiedeva, verso la metà del secolo scorso, Herzen, il più chiaroveggente e il più tormentato fra i liberali russi, spirito dagli interrogativi profetici, nauseato del suo Paese, deluso dall'Occidente, altrettanto inadatto a insediarsi in una patria quanto in un problema, benché gli piacesse speculare sulla vita dei popoli, materia vaga e inesauribile, passatempo da emigrato. Tuttavia i popoli, a prestar fede a un altro russo, a Solov'év, non sono ciò che presumono di essere, ma ciò che Dio pensa di loro nella sua eternità. Ignoro le opinioni di Dio su tedeschi e slavi; so però che ha favorito questi ultimi, e che rallegrarsene sarebbe altrettanto vano che biasimarlo.
Oggi è risolto il problema che tanti russi, nel secolo scorso, si ponevano intorno al loro Paese: « Questo colosso è stato creato per niente? ». Il colosso ha realmente un senso, e quale senso! Una carta ideologica rivelerebbe che si estende al di là dei suoi confini, che stabilisce le sue frontiere dove vuole, dove preferisce, e che la sua presenza evoca ovunque non tanto l'idea di una crisi quanto quella di un'epidemia, talvolta salutare, spesso nociva, sempre folgorante.
L'Impero romano fu opera di una città; l'Inghilterra fondò il suo per rimediare all'esiguità di un'isola; la Germania tentò di erigerne uno per non soffocare in un territorio sovrappopolato. Fenomeno senza parallelo, la Russia doveva giustificare i suoi progetti di espansione in nome del suo immenso spazio. « Dal momento che ne ho abbastanza, perché non averne troppo? », questo è il paradosso implicito sia nei suoi proclami sia nei suoi silenzi. Convertendo l'infinito in categoria politica, essa avrebbe sconvolto il concetto classico e gli schemi tradizionali dell'imperialismo, e suscitato attraverso il mondo una speranza troppo grande per non degenerare in sgomento.
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Coi suoi dieci secoli di terrore, di tenebre e di promesse, essa era più atta di qualunque altra nazione ad accordarsi col lato notturno del momento storico che attraversiamo. L'apocalisse le si adatta a meraviglia, ne ha l'abitudine e il gusto, e oggi vi si esercita più che mai, perché ha visibilmente cambiato ritmo. « Dove corri così, o Russia? », si chiedeva già Gogol', che aveva percepito la frenesia che essa nascondeva sotto l'apparente immobilismo. Adesso sappiamo dove corre, sappiamo soprattutto che, a somiglianza delle nazioni dal destino imperiale, è più impaziente di risolvere i problemi degli altri che i suoi propri. Quanto dire che il nostro cammino nel tempo dipende da ciò che la Russia deciderà o intraprenderà: essa tiene in pugno il nostro avvenire... Fortunatamente per noi, il tempo non esaurisce la nostra sostanza. L'indistruttibile, l'altro-ve, si può concepire: in noi? Fuori di noi? Come saperlo? Resta il fatto che, al punto in cui sono le cose, meritano interesse soltanto le questioni di strategia e di metafisica, quelle che ci inchiodano alla storia e quelle che ce ne strappano via: l'attualità e l'assoluto, i giornali e i Vangeli... Intravedo il giorno in cui non leggeremo più se non telegrammi e preghiere. Fatto notevole: più l'immediato ci assorbe, e più sentiamo il bisogno di opporci a esso, di modo che viviamo, all'interno dello stesso istante, nel mondo e fuori del mondo. Perciò, dinanzi alla sfilata degli imperi, non ci resta che cercare una via di mezzo fra il ghigno e la serenità.