VI - L'ETÀ DELL'ORO

 

 

 

.

I

 

« Gli uomini vivevano allora come gli dèi, col cuore libero da preoccupazioni, lontano dal lavoro e dal dolore. La triste vecchiaia non andava a visitarli e, mantenendo per tutta la vita il vigore dei piedi e delle mani, assaporavano la gioia nei banchetti al riparo da ogni male. Morivano come ci si addormenta, vinti dal sonno. Tutti i beni appartenevano loro. La fertile campagna offriva spontaneamente un cibo abbondante, di cui godevano a piacimento » (Esiodo, Le opere e i giorni).

Questo ritratto dell'età dell'oro assomiglia molto a quello dell'Eden biblico. L'uno e l'altro sono convenzionali quanto possibile: l'irrealtà non può essere drammatica. Essi hanno, se non altro, il merito di definire l'immagine di un mondo statico in cui l'identità non cessa di contemplare se stessa, in cui regna l'eterno presente, tempo comune a tutte le visioni paradisiache, tempo forgiato in opposizione alla stessa idea di tempo. Per concepirlo e aspirarvi, bisogna esecrare il divenire, sentirne il peso e la calamità, desiderare di sottrarsene a ogni costo. Questo desiderio è l'unico di cui sia ancora capace una volontà malata, avida di riposarsi e di dissolversi altrove. Se avessimo aderito senza riserve all'eterno presente, la storia non avrebbe avuto luogo o, in ogni caso, non sarebbe stata sinonimo di fardello o di supplizio. Quando essa pesa troppo su di noi e ci opprime, una viltà senza nome s'impadronisce del nostro essere: la prospettiva di dibatterci ancora in mezzo ai secoli assume le proporzioni di un incubo. I vantaggi dell'età mitologica ci tentano allora fino a farci soffrire oppure, se abbiamo frequentato la Genesi, le divagazioni del rimpianto ci trasportano nell'ebetudine felice del primo giardino, mentre il nostro spirito evoca gli angeli e si sforza di penetrarne il segreto. Più pensiamo a loro, e più essi sorgono dalla nostra stanchezza, non senza qualche profitto per noi: non ci permettono forse di valutare il grado della nostra inappartenenza al mondo, della nostra incapacità d'inserirci in esso? Per quanto impalpabili, irreali, lo sono tuttavia meno di noi che vi riflettiamo e li invochiamo, ombre o contraffazioni d'ombre, carne disseccata, soffio annientato. Ed è con tutte le nostre miserie, da fantasmi oppressi, che pensiamo a loro e li imploriamo. Non c'è nulla di « terribile » nella loro natura, come pretende qualche elegia; no, il terribile consiste nel giungere al punto di non potersi più intendere se non con loro o, quando li crediamo a mille miglia da noi, vederli d'un tratto emergere dal crepuscolo del nostro sangue.

 

II

 

Le « fonti della vita » che gli dèi, secondo il medesimo Esiodo, ci hanno nascoste, Prometeo si è incaricato di rivelarcele. Responsabile di tutte le nostre sventure, egli non ne era consapevole, benché si gloriasse della propria lucidità. I discorsi che Eschilo gli attribuisce sono punto per punto agli antipodi di quelli che abbiamo appena letto in Le opere e i giorni: « Un tempo gli uomini vedevano, ma vedevano male; ascoltavano, ma non capivano... Agivano, ma sempre senza riflettere ». Basta il tono; inutile citare oltre. Ciò che insomma egli rimproverava loro era di immergersi nell'idillio primordiale e di conformarsi alle leggi della loro natura, incontaminata dalla coscienza. Risvegliandoli all'intelligenza, separandoli da quelle « fonti » di cui prima godevano senza cercare di sondarne la profondità o il senso, non dispensò loro la felicità, ma la maledizione e i tormenti del titanismo. Della coscienza, essi facevano benissimo a meno; Prometeo venne a infliggerla agli uomini, a costringerveli ed essa suscitò in loro un dramma che si prolunga in ognuno di noi e si concluderà soltanto con la fine della specie. Più i tempi avanzano, e più la coscienza ci afferra, ci domina, e ci strappa alla vita; noi vogliamo ag-grapparvici di nuovo e, non riuscendovi, ce la prendiamo con l'una e con l'altra, poi ne soppesiamo il significato e i dati, per finire, esasperati, col prendercela con noi stessi. Quel funesto filantropo, che non ha altra scusa se non l'illusione, quel tentatore involontario, serpente imprudente e malaccorto, non aveva previsto tutto ciò. Gli uomini ascoltavano; che bisogno avevano di capire? Egli ve li costrinse, abbandonandoli al divenire, alla storia; in altri termini, cacciandoli dall'eterno presente. Innocente o colpevole, che importa! Egli ha meritato la sua punizione.

Primo zelatore della « scienza », un moderno nella peggiore accezione del termine, le sue fanfaronate e i suoi deliri annunciano quelli di parecchi dottrinari del secolo scorso : soltanto le sue sofferenze ci consolano di tante stravaganze. L'aquila, ecco qualcuno che ha capito e che, indovinando il nostro avvenire, volle risparmiarcene le angosce. Ma l'abbrivo era stato dato: gli uomini avevano ormai preso gusto ai maneggi del seduttore che, modellandoli a sua immagine, aveva insegnato loro a frugare come lui nel sottofondo della vita, malgrado il divieto degli dèi. Egli è l'istigatore alle indiscrezioni e ai misfatti della conoscenza, a quella curiosità micidiale che ci impedisce di adattarci al mondo: idealizzando il sapere e l'atto, Prometeo non ha forse rovinato nel medesimo tempo l'essere e, con l'essere, la possibilità dell'età dell'oro? Le tribolazioni cui ci destinava, senza valere le sue, sarebbero tuttavia durate più a lungo. Il suo « programma », coerente come la fatalità, lo ha realizzato a meraviglia e... alla rovescia; tutto ciò che ci ha predicato e imposto si è rivolto puntualmente dapprima contro di lui, poi contro di noi. Non si scuote impunemente l'incoscienza originaria; coloro che, sul suo esempio, vi attentano, seguono inesorabilmente la sua sorte: vengono divorati, hanno anch'essi la loro roccia e la loro aquila. E l'odio di cui lo gratificano è tanto più virulento in quanto essi si odiano in lui.

 

III

 

Il passaggio all'età dell'argento, poi a quella del rame e del ferro, segna la progressione del nostro decadimento, del nostro allontanamento da quell'eterno presente di cui non sappiamo concepire più se non il simulacro e col quale abbiamo cessato di avere una frontiera comune: esso appartiene a un altro universo, ci sfugge, e ne siamo così separati che non riusciamo a sospettarne la natura. Non c'è alcun mezzo per appropriarcelo: l'abbiamo veramente posseduto un tempo? E come insediarvisi di nuovo quando niente ce ne restituisce l'immagine? Ne siamo per sempre frustrati, e se talvolta ci avviciniamo a esso, il merito è di questi estremi di sazietà e di atonia in cui esso, però, non è più che la caricatura di se stesso, parodia dell'immutabile, divenire prostrato, irrigidito in un'avarizia atemporale, raggrinzito su un istante sterile, su un tesoro che lo impoverisce, divenire spettrale, sprovvisto eppure colmo, in quanto sazio di vuoto. Per degli esseri ai quali l'estasi è stata vietata, nessuna apertura sulle loro origini se non attraverso l'estinzione della loro vitalità, l'assenza di ogni attributo, attraverso questa sensazione d'infinità vacua, di a-bisso deprezzato, di spazio in piena inflazione e di durata supplice e nulla.

C'è un'eternità vera, positiva, che si estende al di là del tempo; e ce n'è un'altra, negativa, falsa, che si situa al di qua: quella stessa in cui imputridiamo, lontano dalla salvezza, fuori dalla competenza di un redentore, e che ci libera di tutto privandoci di tutto. Destituito l'universo, ci esauriamo allo spettacolo delle nostre proprie apparenze. Si è forse atrofizzato l'organo che ci consentiva di percepire il fondo del nostro essere? E siamo per sempre ridotti alle nostre sembianze? Quand'anche si contassero tutti i mali di cui soffrono la carne e lo spirito, essi non sarebbero ancora nulla in confronto al male che deriva dall'incapacità di accordarci con l'eterno presente o di rubargli, per goderne, anche solo una briciola.

Caduti senza scampo nell'eternità negativa, in questo tempo sparpagliato, che si afferma solo annullandosi, essenza ridotta a una serie di distruzioni, somma di ambiguità, pienezza il cui principio risiede nel nulla, viviamo e moriamo in ognuno dei suoi istanti, senza sapere quando esso è, perché in verità non è mai. Nonostante la sua precarietà, vi siamo cosi attaccati che, per allontanarcene, ci vorrebbe più che uno sconvolgimento delle nostre abitudini: una lesione dello spirito, un'incrinatura dell'io, attraverso cui poter intravedere l'indistruttibile e accedervi, favore accordato soltanto a qualche reprobo come ricompensa del suo assenso alla propria rovina.

Il resto, la quasi totalità dei mortali, pur riconoscendosi incapaci di un tale sacrificio, non rinunciano alla ricerca di un altro tempo; vi si dedicano anzi con accanimento, ma per collocar

lo quaggiù, secondo le raccomandazioni dell'utopia, che tenta di conciliare l'eterno presente e la storia, le delizie dell'età dell'oro e le ambizioni prometeiche, o, per ricorrere alla terminologia biblica, di rifare l'Eden coi mezzi della caduta, permettendo in tal modo al nuovo Adamo di conoscere i vantaggi dell'antico. Non significa cercare di rivedere la Creazione?

 

IV

 

L'idea che Vico ebbe di costruire una « storia ideale » e di tracciarne il « circolo eterno » si ritrova, applicata alla società, nei sistemi utopistici, la cui peculiarità consiste nel voler risolvere una volta per sempre la « questione sociale ». Da qui la loro ossessione del definitivo e la loro impazienza d'instaurare il paradiso al più presto, nell'avvenire immediato, sorta di durata stazionaria, di Possibile immobilizzato, contraffazione dell'eterno presente. « Se io annuncio con tanta sicurezza » dice Fourier « l'armonia universale come assai prossima, è perché l'organizzazione dello Stato societario non richiede più di due anni... ». Confessione ingenua quanto mai, che traduce tuttavia una realtà profonda. Ci lanceremmo nella più piccola impresa senza la convinzione segreta che l'assoluto dipende da noi, dalle nostre idee e dai nostri atti, e che possiamo assicurarcene il trionfo in un periodo abbastanza breve? Chi si identifica completamente con qualche cosa si comporta come se attendesse l'avvento dell'«armonia universale » o se ne credesse il promotore. Agire significa ancorarsi in un futuro prossimo, così prossimo da diventare quasi tangibile, significa sentirsi consustanziali a esso. Le cose stanno diversamente per chi è perseguitato dal demone della dilazione. « Ciò che si può rimandare utilmente, si può ancora più utilmente abbandonare », ripetono costoro con Epitteto, benché la loro passione per il rinvio non derivi, come nello stoico, da una considerazione morale, ma da un terrore quasi metodico e da un disgusto troppo inveterato perché non assuma l'aspetto di una disciplina o di un vizio. Se hanno proscritto il prima e il dopo, evacuato l'oggi e il domani, ugualmente inabitabili, è perché riesce loro più facile vivere con l'immaginazione fra diecimila anni che crogiolarsi nell'immediato e nell'imminente. Lungo gli anni, essi avranno pensato più al tempo in sé che al tempo obiettivo, più all'indefinito che all'efficace, alla fine del mondo che alla fine di una giornata. Non conoscendo nella durata e neppure nell'estensione momenti o luoghi privilegiati, essi passano di cedimento in cedimento, e quando anche questa progressione è loro vietata, si fermano, guardano da ogni lato, interrogano l'orizzonte: non c'è più orizzonte... E allora provano non la vertigine, ma il panico, un panico così forte che annienta i loro passi e impedisce loro di fuggire. Sono degli esclusi, dei proscritti, dei fuori-tempo, disgiunti dal ritmo che trascina la turba, vittime di una volontà anemica e lucida, che lotta con se stessa e si ascolta incessantemente. Volere, nel senso pieno della parola, significa ignorare che si vuole, rifiutare di insistere sul fenomeno della volontà. L'uomo d'azione non pesa né i suoi impulsi né i suoi movimenti, ancor meno consulta i suoi riflessi: obbedisce loro senza riflettervi, e senza molestarli. Non l'atto in se stesso lo interessa, ma lo scopo, l'intenzione dell'atto; parimenti, lo tratterrà l'oggetto, e non il meccanismo della volontà. Alle prese col mondo, egli vi cerca il definitivo o spera di introdurvelo, subito o fra due anni... Manifestarsi significa lasciarsi abbacinare da una forma qualsiasi di perfezione: perfino il movimento come tale contiene un ingrediente utopistico. Perfino respirare sarebbe un supplizio senza il ricordo o il presentimento del paradiso, oggetto supremo - e tuttavia inconscio - dei nostri desideri, essenza inespressa della nostra memoria e della nostra attesa. Incapaci di scoprirlo nel profondo della loro natura, e anche troppo frettolosi per poterlo estrarre, i moderni dovevano proiettarlo nel futuro. L'epigrafe del giornale saintsimoniano « Le Producteur » è un compendio di tutte le loro illusioni : « L'età dell'oro, che una tradizione cieca ha situato nel passato, è davanti a noi ». Perciò importa affrettarne l'avvento, instaurarlo per l'eternità, secondo un'escatologia sorta non dall'ansia, ma dall'esaltazione e dall'euforia, da un'avidità di felicità sospetta e quasi morbosa. Il rivoluzionario pensa che lo sconvolgimento che egli prepara sarà l'ultimo; e tutti noi pensiamo allo stesso modo nella sfera delle nostre attività: l'ultimo è l'ossessione del vivente. Ci agitiamo perché crediamo che ci spetti di portare a compimento la storia, di chiuderla, perché essa ci sembra un nostro dominio, come del resto la « verità », uscita finalmente dalla sua riserva per svelarsi a noi. L'errore sarà il retaggio degli altri; solo noi avremo tutto compreso. Trionfare sui propri simili, poi su Dio, voler rimaneggiare la sua opera, correggerne le imperfezioni: chi non ci si prova, chi non si ritiene in dovere di provarcisi, rinuncia, sia per saggezza, sia per debolezza, al proprio destino. Prometeo voleva fare meglio di Zeus; demiurghi improvvisati, noi vogliamo fare meglio di Dio, infliggergli l'umiliazione di un paradiso superiore al suo, sopprimere l'irreparabile, « defatalizzare » il mondo, per prendere in prestito una parola dal gergo di Proudhon.

Nel suo progetto generale, l'utopia è un sogno cosmogonico al livello della storia.

 

V

 

Non si edificherà il paradiso quaggiù finché gli uomini saranno segnati dal Peccato; si tratta dunque di sottrarveli, di liberarli. I sistemi che vi si sono votati partecipano di un pelagianesirno più o meno mascherato. Si sa che Pelagio (un celta, un ingenuo), negando le conseguenze della caduta, toglieva alla prevaricazione di Adamo ogni possibilità di colpire i posteri. Il nostro primo avo ha vissuto un dramma strettamente personale, è incorso in una sventura che riguardava lui solo, senza conoscere in nessun modo il piacere di trasmetterci in eredità le sue tare e le sue disgrazie. Nati buoni e liberi, non c'è in noi alcuna traccia di una corruzione originaria.

È difficile immaginare una dottrina più generosa e più falsa; si tratta di un'eresia di tipo utopistico, feconda per le sue stesse esagerazioni, per le sue assurdità ricche di avvenire. Non che gli autori di utopie vi si siano ispirati direttamente, ma non si contesterà che c'è nel pensiero moderno, in opposizione all'agostinismo e al giansenismo, tutta una corrente pelagiana - l'idolatria del progresso e le ideologie rivoluzionarie ne saranno il risultato - secondo la quale noi costituiremmo una massa di eletti virtuali, emancipati dal peccato d'origine, plasmabili a piacere, predestinati al bene, suscettibili di tutte le perfezioni. Il manifesto di Robert Owen ci promette un sistema atto a creare « un nuovo spirito e una nuova volontà in tutto il genere umano, e a condurre così ognuno, per una necessità irresistibile, a diventare conseguente, razionale, sano di giudizio e di condotta ».

Pelagio, come i suoi lontani discepoli, parte da una visione accanitamente ottimistica della nostra natura. Ma non è in alcun modo provato che la volontà sia buona; anzi, è certo che non lo è affatto, la nuova come la vecchia. Solo gli uomini di debole volere sono spontaneamente buoni; gli altri vi si devono applicare, e vi riescono soltanto a costo di sforzi che li inaspriscono. Dato che il male è inseparabile dall'atto, le nostre imprese si rivolgono necessariamente contro qualcuno o qualche cosa; al limite, contro noi stessi. Ma generalmente, insisto, non si vuole se non a spese degli altri. Lungi dall'essere più o meno degli eletti, siamo più o meno dei reprobi. Volete costruire una società in cui gli uomini non si nuocciano più reciprocameli l e? Lasciateci entrare soltanto degli abulici.

Non abbiamo, insomma, che la scelta fra una volontà malata e una volontà cattiva; l'una, eccellente, perché colpita, immobilizzata, inefficace; l'altra, nociva, e quindi turbolenta, investita di un principio dinamico: quella stessa che alimenta la febbre del divenire e suscita gli avvenimenti. Toglietela all'uomo, se puntate sull'età dell'oro! Tanto varrebbe spogliarlo del suo essere, il cui segreto risiede tutto in questa propensione a nuocere senza la quale non lo si può concepire. Restio sia alla sua che all'altrui felicità, egli agisce come se desiderasse l'avvento di una società ideale; se si realizzasse, vi soffocherebbe, dato che gli inconvenienti della sazietà sono incomparabilmente maggiori di quelli della miseria. Gli piace la tensione, il perpetuo cammino: verso che cosa andrebbe all'interno della perfezione? Inadatto all'eterno presente, egli ne teme, per di più, la monotonia, scoglio del paradiso nella sua duplice forma: religiosa e utopistica. La storia non è forse, in ultima istanza, il risultato della nostra paura della noia, di quella paura che ci farà sempre prediligere il piccante e la novità del disastro, e preferire qualsiasi disgrazia al ristagno? L'ossessione dell'inedito è il principio distruttivo della nostra salvezza. Ci avviamo verso l'inferno nella misura in cui ci allontaniamo dalla vita vegetativa, la cui passività dovrebbe costituire la chiave di tutto, la suprema risposta a tutti i nostri interrogativi; l'orrore che essa ci ispira ha fatto di noi quest'orda di persone civili, di mostri onniscienti che ignorano l'essenziale. Siamo troppo corrotti e troppo affannati per poter languire lentamente, respirare e niente più, subire dignitosamente l'ingiustizia di essere, sottrarci all'attesa, all'oppressione della speranza, cercare una via di mezzo fra la carogna e il respiro. Nulla, decisamente, ci riconcilierà con la noia. Per esserle meno ribelli, dovremmo conoscere, per un qualche soccorso dall'alto, una pienezza senza avvenimenti, la voluttà dell'istante invariabile, l'estasi dell'identità. Ma una grazia simile è talmente contraria alla nostra natura che siamo troppo felici di non riceverla. Incatenati alla diversità, vi attingiamo quella somma costante di disillusioni e di conflitti tanto necessaria ai nostri istinti. Liberati da preoccupazioni, e da ogni impedimento, saremmo abbandonati a noi stessi; la vertigine che ne trarremmo ci renderebbe mille volte peggiori di quanto non lo faccia la nostra servitù. Quest'aspetto del nostro decadimento è sfuggito agli anarchici, ultimi pelagiani in ordine di tempo, i quali ebbero tuttavia sui loro predecessori la superiorità di respingere, per culto della libertà, tutte le città, a cominciare dalle « ideali », e di sostituire a esse una nuova varietà di chimere, più brillanti e più improbabili delle vecchie. Se sono insorti contro lo Stato e ne hanno reclamato la soppressione, è perché vedevano in esso un ostacolo all'esercizio di una volontà intrinsecamente buona; ora, proprio perché questa volontà è cattiva, è nato lo Stato; se quest'ultimo scomparisse, essa si compiacerebbe nel male senza restrizione alcuna. Ciò non toglie che l'idea degli anarchici di annientare qualsiasi autorità resti una tra le più belle che mai siano state concepite. E non si deplorerà mai abbastanza la scomparsa della razza di costoro, che la volevano attuare. Ma forse essi dovevano scomparire e allontanarsi da un secolo come il nostro, così ansioso di infirmare le loro teorie e le loro previsioni. Annunciavano l'èra dell'individuo: e l'individuo volge alla fine; l'eclissi dello Stato: ed esso non è mai stato così forte e invadente; l'epoca dell'uguaglianza: ed è arrivata l'epoca del terrore. Tutto si sta degradando. Perfino i nostri attentati, in confronto ai loro, hanno perduto in qualità: quelli che di quando in quando ci si degna ancora di commettere mancano di quello sfondo di assoluto che riscattava i loro, eseguiti sempre con tanta cura e con tanto brio! Non c'è più nessuno oggi che lavori, coll'aiuto delle bombe, all'instaurazione dell'«armonia universale », finzione capitale dalla quale non ci aspettiamo più nulla... Del resto, che cosa potremmo sperarne, al limite estremo dell'età del ferro cui siamo pervenuti? Il sentimento che vi predomina è il disinganno, somma dei nostri sogni avariati. E se non abbiamo nemmeno la risorsa di poter credere nelle virtù della distruzione, è perché, anarchici esonerati, ne abbiamo compreso l'urgenza, e l'inutilità.

 

VI

 

La sofferenza, ai suoi inizi, conta sull'età dell'oro quaggiù, vi cerca un appoggio, vi si fissa in qualche maniera; ma più si aggrava, e più se ne allontana, per non dedicarsi che a se stessa. Da complice dei sistemi utopistici qual era, si volge adesso contro di essi, vi scorge un pericolo mortale per la conservazione delle proprie angosce, di cui ha appena scoperto l'incanto. Col personaggio delle Memorie dal sottosuolo, essa deporrà a favore del caos, insorgerà contro la ragione, contro il « due per due fa quattro », contro il « palazzo di cristallo », replica del Falansterio. Chi ha conosciuto l'inferno, la sventura pianificata, ne ritroverà la simmetria terribile nella città ideale, felicità per tutti, che ripugna a chiunque abbia molto sofferto: Dostoevskij vi si mostrò ostile fino all'intolleranza. Con l'età, egli si definirà sempre più in contrasto con le idee fourieristiche della sua gioventù; non potendosi perdonare di averle sottoscritte, se ne vendicò sui suoi eroi, caricature... sovrumane delle sue prime illusioni. Ciò che detestava in loro erano i suoi antichi errori, le concessioni che egli aveva fatto all'utopia, numerosi temi della quale dovevano tuttavia assillarlo: quando, col grande Inquisitore, divide l'umanità in un gregge felice e in una minoranza devastata, chiaroveggente, che ne assume i destini, o quando, con Piòtr Verchovenskij, vuole fare di Stavrogin il capo spirituale della città futura, un sommo pontefice rivoluzionario e ateo, non s'ispira forse al « sacerdozio » che i saintsimoniani mettevano al di sopra dei « produttori » o al progetto di Enfantin di elevare Saint-Simon stesso a papa della nuova religione? Egli avvicina il cattolicesimo al « socialismo », anzi li identifica, secondo un'ottica che partecipa del metodo e del delirio, miscuglio eminentemente slavo. Rispetto all'Occidente, tutto in Russia si innalza di un grado: lo scetticismo vi diventa nichilismo, l'ipotesi dogma, l'idea icona. Sigalév non proferisce più idiozie di quante non ne dica Cabet; però vi mette un accanimento che non si ritrova nel suo modello francese. « Voi non avete più ossessioni, soltanto noi ne abbiamo ancora », sembra che i russi dicano agli occidentali per mezzo di Dostoevskij, l'ossesso per eccellenza, infeudato, come tutti i suoi personaggi, a un unico sogno: quello dell'età dell'oro, senza il quale, egli ci assicura, « i popoli non vogliono vivere e non possono neppure morire ». Egli personalmente non ne aspetta l'attuazione nella storia, ne teme anzi l'avvento, senza per altro cadere nella « reazione », perché attacca il « progresso » non in nome dell'ordine, ma del capriccio, del diritto al capriccio. Dopo aver respinto il paradiso a venire, salverà l'altro, l'antico, immemorabile? Ne farà l'oggetto di un sogno, che attribuirà successivamente a Stavrogin, a Versilov e all'«uomo ridicolo».

« C'è al museo di Dresda un quadro di Claude Lorrain, che figura nel catalogo col titolo Aci e Galatea... È questo quadro che ho visto in sogno, ma non come un quadro, bensì come una realtà. Era, come nel quadro, un angolo dell'arcipelago greco, e sembrava che io fossi tornato indietro di oltre tremila anni. Onde azzurre e carezzevoli, isole e rocce, rive fiorenti; in lontananza, un panorama incantevole, il richiamo del sole al tramonto... Era qui la culla dell'umanità... Gli uomini si svegliavano e si addormentavano felici e innocenti; i boschi risuonavano dei loro canti gioiosi, il sovrappiù delle loro forze abbondanti si riversava nell'amore, nella gioia semplice. E io lo sentivo, pur scorgendo l'avvenire immenso che li attendeva e che essi non sospettavano nemmeno, e il mio cuore fremeva a questi pensieri » (I demoni).

Versilov, a sua volta, farà lo stesso sogno di Sta-vrogin, con questa differenza però, che il sole al tramonto gli apparirà subito non più come quello del principio, ma come quello della fine del-l'« umanità europea». Nell' Adolescente si vede che il quadro si offusca un po'; si oscurerà del tutto nel Sogno di un uomo ridicolo. L'età dell'oro e i suoi clichés vi sono presentati con maggior precisione e maggior foga che non nei due sogni precedenti : una visione di Claude Lorrain commentata da un Esiodo sarmatico. Ci troviamo sulla terra « prima che venisse macchiata dal peccato originale ». Gli uomini vivevano « in una sorta di fervore amoroso, universale e reciproco », avevano bambini, ma senza conoscere gli orrori della voluttà e del parto, erravano per i boschi cantando inni e, immersi in un'estasi perpetua, ignoravano la gelosia, la collera, le malattie, ecc. Tutto ciò rimane ancora convenzionale. Per nostra fortuna, la loro felicità, che sembrava eterna, si sarebbe rivelata, alla prova, precaria: l'« uomo ridicolo » giunse fra di loro, e li pervertì tutti. Con la comparsa del male, i clichés si dileguano, il quadro si anima. - « Come una malattia infettiva, come un atomo di peste capace di contaminare tutto un impero, così io contaminai con la mia presenza una terra di delizie che, prima di me, era innocente. Essi impararono a mentire e a compiacersi nella menzogna, impararono la bellezza della menzogna. Forse tutto è cominciato molto innocentemente, per semplice scherzo, per civetteria, come una specie di gioco piacevole, e forse davvero tramite qualche atomo, ma quest'atomo di menzogna si insinuò nel loro animo e parve loro gradevole. Poco dopo nacque la voluttà; la voluttà generò la gelosia, la gelosia la crudeltà... Ah, non so, non ricordo più, ma presto, molto presto, il sangue zampillò in un primo spruzzo: essi ne furono stupiti, spaventati, e cominciarono ad allontanarsi gli uni dagli altri, a separarsi. Si formarono alleanze, ma questa volta dirette contro altri. Si sentirono rimproveri e biasimi. Impararono che cos'è la vergogna, e della vergogna fecero una virtù. Sorse in loro il sentimento dell'onore e brandì il suo stendardo al di sopra di ogni alleanza. Cominciarono a maltrattare le bestie, e le bestie, allontanandosi per raggiungere il fondo delle foreste, diventarono loro nemiche. Un'èra di lotte si iniziò a beneficio del particolarismo, dell'individualismo, della personalità, della distinzione fra il mio e il tuo. Ci fu diversità di linguaggi. Essi impararono la tristezza e amarono la tristezza; aspirarono alla sofferenza e dissero che la verità si raggiunge solo attraverso la sofferenza. E fra di loro fece la sua comparsa la scienza. Divenuti cattivi, proprio allora cominciarono a parlare di fratellanza e di umanità e compresero tali idee. Divenuti criminali, proprio allora inventarono la giustizia e si dettarono codici completi per conservarla; poi, per garantire il rispetto dei codici, istituirono la ghigliottina. Non avevano più che un vago ricordo di ciò che avevano perduto, non volevano neppure credere di essere stati un tempo innocenti e felici. E non mancavano di beffarsi della possibilità della loro antica felicità, che chiamavano un sogno » (vedi il Diario di uno scrittore).

Ma c'è di peggio: avrebbero scoperto che la coscienza della vita è superiore alla vita e la conoscenza delle « leggi della felicità » superiore alla felicità. Da quel momento furono perduti; separandoli da loro stessi attraverso l'opera demoniaca della scienza, precipitandoli dall'eterno presente nella storia, l'« uomo ridicolo » non ha forse ripetuto, nei loro confronti, gli errori e le follie di Prometeo?

Ma, perpetrato il suo delitto, eccolo che predica, su istigazione del rimorso, una crociata per la conquista di questo mondo di delizie che ha appena rovinato. Vi si impegna, ma non ci crede veramente. Neanche l'autore, questa è almeno la nostra impressione : dopo aver respinto le formule dell'Avvenire, egli non si volge verso la sua ossessione preferita, verso la felicità immemorabile, se non per renderne evidenti l'inconsistenza e la fantasmagoria. Accasciato dalla sua scoperta, cercherà di attenuarne gli effetti, di rianimare le proprie illusioni, di salvare, anche solo come idea, il proprio sogno più caro. Non ci riuscirà, egli lo sa come lo sappiamo noi, e snaturiamo di poco il suo pensiero affermando che arriva alla conclusione della doppia impossibilità del paradiso.

Del resto, non è significativo che, per descrivere il paesaggio idilliaco delle tre versioni del sogno, egli abbia fatto appello a Claude Lorrain, i cui insipidi incanti gli piacevano, esattamente come piacevano a Nietzsche? (Quale abisso suppone una predilezione così sconcertante!). Ma dal momento in cui si tratta di dipingere lo sgretolamento della felicità originaria, lo scenario e le vertigini della caduta, egli non ricorre più a nessuno, attinge a se stesso, scarta ogni suggerimento estraneo; cessa anzi di immaginare e di sognare: vede. E si ritrova finalmente nel suo elemento, nel cuore dell'età del ferro, per amore della quale aveva combattuto il « palazzo di cristallo » e sacrificato l'Eden.

.

VII

 

Poiché una voce così autorevole ci ha istruiti sulla fragilità dell'antica età dell'oro e sulla nullità del futuro, è necessario trarne le conseguenze e non lasciarci più sedurre dalle divagazioni di Esiodo né da quelle di Prometeo, e ancor meno dalla sintesi che le utopie hanno tentato di darne. L'armonia, universale o no, non è esistita né esisterà mai. In quanto alla giustizia, per crederla possibile, per immaginarla semplicemente, occorrerebbe beneficiare di un dono di cecità sovrannaturale, di un'elezione inusitata, di una grazia divina rafforzata da una grazia diabolica, e contare, inoltre, su uno sforzo di generosità da parte del cielo e dell'inferno, per dire la verità, assai improbabile, da un lato come dall'altro. Per testimonianza di Karl Barth, non potremmo « conservare neanche un soffio di vita se, nel più profondo di noi, non esistesse questa certezza: Dio è giusto ». - Eppure c'è gente che vive sempre senza conoscere questa certezza, anzi, senza averla mai conosciuta. Qual è il suo segreto e, sapendo ciò che sa, per quale miracolo respira ancora?

Per quanto spietati siano i nostri rifiuti, non distruggiamo completamente gli oggetti della nostra nostalgia : i nostri sogni sopravvivono ai nostri risvegli e alle nostre analisi. Se abbiamo cessato di credere nella realtà geografica o nelle varie figurazioni del paradiso, esso risiede pur sempre in noi come un dato supremo, come una dimensione del nostro io originario; si tratta adesso di scoprirvelo. Quando ci riusciamo, entriamo in quella gloria che i teologi chiamano essenziale-, ma non è Dio che vediamo faccia a faccia, bensì l'eterno presente, conquistato sul divenire e sull'eternità stessa... Da quel momento, che cosa importa più la storia? Essa non è la sede dell'essere, ne è l'assenza, il no di ogni cosa, la rottura del vivente con se stesso; non essendo impastati della stessa sostanza, ci ripugna di cooperare ancora alle sue convulsioni. Libera di schiacciarci, toccherà solo le nostre apparenze e le nostre impurità, questi relitti di tempo che ci trasciniamo sempre dietro, simboli di sconfitta, segni di servitù.

Dobbiamo cercare rimedio ai nostri mali in noi stessi, nel principio atemporale della nostra natura. Se l'irrealtà di tale principio fosse dimostrata, provata, saremmo perduti senza appello. Quale dimostrazione, quale prova potrebbe tuttavia prevalere sulla convinzione intima, appassionata, che una parte di noi sfugge alla durata, sull'irruzione di quegli istanti in cui Dio è la ripetizione superflua di una chiarezza sorta d'un tratto ai nostri confini, beatitudine che ci proietta lontano in noi stessi, brivido fuori dell'universo? Non più passato né avvenire; i secoli si dileguano, la materia abdica, le tenebre sono esauste; la morte sembra ridicola, e ridicola la vita stessa. E questo brivido, provato anche una sola volta, basterebbe per riconciliarci con le nostre onte e con le nostre miserie, di cui esso è senz'altro il compenso. È come se tutto il tempo fosse venuto a farci visita, un'ultima volta, prima di sparire... Inutile risalire, dopo, verso l'antico paradiso o correre verso il futuro: l'uno è inaccessibile, l'altro irrealizzabile. Ciò che invece importa è di interiorizzare la nostalgia o l'attesa, necessariamente frustrate quando si volgono verso l'esterno, e costringerle a svelare o a creare in noi la felicità che rispettivamente rimpiangiamo o attendiamo. Niente paradiso, se non nel più profondo del nostro essere, e come nell'io dell'io; e inoltre, per ritrovarvelo, bisogna aver fatto il giro di tutti i paradisi, trascorsi e possibili, averli amati e odiati con la goffaggine del fanatismo, scrutati e respinti poi con la competenza della delusione.

Si dirà che sostituiamo un fantasma a un altro, che le favole dell'età dell'oro non valgono meno dell'eterno presente al quale pensiamo, e che l'io originario, fondamento delle nostre speranze, evoca il vuoto e in fin dei conti vi si riconduce? Sia pure! Ma un vuoto che dispensa la pienezza non contiene forse più realtà di quanta non ne possieda la storia nel suo insieme?